Affascinante itinerario nel mistero del passato
di PIPPO LO CASCIO
Grazie alle antiche indagini ed alle numerose e recenti
scoperte in quasi tutte le grotte ed i ripari del comprensorio del monte
Gallo, si è accertata una capillare frequentazione preistorica, che copre
un ampio arco di tempo che va dal Paleolitico all'Età del Rame, periodo
corrispondente a circa 100 secoli. E' doveroso citare gli studiosi che
hanno dato un determinante apporto alla conoscenza del territorio ed alla
diffusione delle scoperte archeologiche; il barone Anca che nel 1859
effettuò i primi scavi alla grotta Perciata alla Fossa del Gallo, il
Gemmellaro che esplorò le grotte del Capraio e delle Vitelle, il medico
madonita Minà Palumbo cui va il merito di avere collocato, già nel 1869, le
coordinate crono-tipologiche del materiale in maniera abbastanza adeguata
per l'epoca in cui operò, il francese Raymond Vaufrey, direttore del
prestigioso Museo de l'Homme di Parigi, il tedesco Ferdinand von Andrian ed
infine Teodosio De Stefani, che compì numerose ricognizioni di superficie,
al fine di accertare, descrivere e censire la grossa potenzialità storica
ed archeologica del
comprensorio. Lungo i tredici chilometri del tormentato
periplo montano del Gallo, si contano oltre una ventina tra grotte e
ripari, utilizzati da comunità antropiche e decine di siti archeologici di
età storica, che abbracciano vari periodi. I principali
mezzi di sussistenza delle popolazioni paleolitiche erano
la pesca, la caccia, la raccolta di radici e di molluschi, i cui resti si
trovano frammisti agli utensili di vita quotidiana. Le grotte più note sono
quelle prospicienti il mare che lambisce l'an-
anfiteatro naturale della Fossa del Gallo e che sono
comunemente indicate con il nome di grotte della Marinella. Agli eruditi
del passato si riconosce anche il merito di avere dato i natali alla
paletnologia siciliana e di averle considerate capisaldi della letteratura
paletnologica europea assieme alle grotte dell'Addaura ed a quelle di San
Teodoro, in provincia di Messina. Le grotte della Marinella sono sei,
poiché alle cinque già note in antico e cioè: la grotta delle Vitelle o
Magaru, la grotta Perciata, la grotta del Capraio, la grotta Regina nota
per la presenza di un santuario fenicio-punico e la grotta dei Vaccari, se
n'è aggiunta una sesta, recentemente scoperta dallo scrivente, cui ha
imposto il nome di "grotta della Caramula".
Percorrendo da Oriente ad Occidente la fascia pedemontana
del massiccio, dall'estrema punta del Capo in direzione del borgo di
pescatori di Mondello, appena superato l'edificio militare del Faro o
Lanterna, si è in località Coda di Volpe alla "Fossa", dove è stata
scoperta la grotta della Caramula, il cui talus è ricco di frammenti
ceramici ascrivibili alle facies della Conca d'Oro e di Thapsos, culture
che si fanno risalire rispettivamente all'Età del Rame ed alla media Età
del Bronzo. Lo stretto e lungo cunicolo dell'antro si apre a circa metri
220 s. I. m. e si manifesta ai visitatori con una grossa fenditura
nell'alta falesia del monte, una vera e propria faglia, mentre al suo
interno si osservano numerosi massi prodotti da frane staccatisi dall'alta
volta e che in parte occupano il piano di calpestio. Tra i reperti più
importanti, figurano parti di ollette globulari con orli lievemente
estro-flessi e piccole anse verticali a nastro impostate al di sotto degli
orli. Sempre a mezza costa si aprono le cinque famose grotte di cui abbiamo
accennato e di cui tanto si è parlato e si è scritto, soprattutto in testi
scientifici e divulgativi. Nella proprietà Leone ai piedi dell'alta
falesia, sono stati localizzati alcuni talus e ripari sotto roccia, tra cui
quello più importante è rappresentato dal riparo del Cane, un piccolo
aggetto che conserva tracce di interesse paletnologico. Tra i frammenti
ceramici sono riconoscibili alcune parti di ollette e di ciotole
ascrivibili al Paleolitico superiore. Percorrendo la costa, poco oltre il
centro abitato di Mondello, si trova un incavo sotto roccia denominato
riparo Calpumio, che rimane nascosto alla vista dalla sottostante strada
costiera. Tra gli sfabbricidi a ridosso della parete sono state rinvenute
poche tracce di manufatti litici e di frammenti ceramici, ma diagnostici al
fine della loro datazione. Tra la trazzera di Coda di Volpe, un'antica
arteria che conduce da Mondello in cima al monte e la proprietà Leone, si
aprono la grotta Bianca e la grotta dell'Acqua. Lungo i bordi delle pareti,
che risultano le parti meno rimaneggiate, si rinvengono lame e raschiatoi
in selce ai buona fattura. Tra le scoperte osteo-logiche più significative,
sono quelle di erbivori, come il Cervus elaphus e l'Ovis vel capra, che
presentano la caratteristica di essere spezzate longitudinalmente,
probabilmente per estrarne il midollo. Durante la costruzione di una nuova
strada che collega il quartiere Z. E. N. (Zona Espansione Nord) alla
borgata di Tommaso Natale, in prossimità di un orto dove affiora un banco
di calcarenite, è venuta alla luce una parte di una tomba a forno, che
faceva un tempo parte della non più esistente "necropoli Scalea-Santocanale"
dell'Eneolitico medio. L'ampio areale cimiteriale era costituito da
centinaia di tombe dalla caratteristica tipologia a "forno": quella
superstite, scoperta da Francesca Mercadante, è scavata nel sottosuolo
della tenera calcarenite ed ha un diametro di circa m. 1,30. Continuando il
periplo in direzione di Sferracavallo, seguono le due gratticene del Cozzo
Portello, poste nella parete Sud-occidentale, nei pressi della fabbrica
della Coca-Cola. Rimane purtroppo ben poco del loro originario talus, ma
sufficiente per comprendere quale sia stata e per quanto tempo si è
protratta l'utilizzazione dei luoghi sin dal Paleolitico superiore; la
presenza di selci lavorate e di frammenti di ceramica acroma, che si
rinvengono sia all'interno delle cavità che lungo le stradelle di accesso
per ampio raggio, ne sono la diretta testimonianza di una lunga
frequentazione. Un'ansa ad orecchietta ad impasto rossiccio, ascrivibile
alla media Età del Bronzo ed un frammento riconducibile alla facies di
Serraferlicchio, sono i reperti più significativi. Il riparo Schillaci si
trova nel punto più alto della parete orientale dell'anfiteatro terrazzato
ed è posto proprio ai piedi del Pizzo omonimo, lungo la salita che conduce
al pianoro del monte Santa Margherita. E' una zona altamente scenografica,
di sicuro interesse naturalistico ed archeologico e punto di riferimento
per gli antichi navigatori che provenivano da Occidente diretti al porto di
Palermo. Dai pochi dati in nostro possesso, sembra che l'enorme riparo sia
stato frequentato sin dalla preistoria come si evince dalla presenza di
sporadiebe selci lavorate e rioccupato successivamente in età tardo-romana
e medievale, come attestano alcuni rinvenimenti di frammenti ceramici
tipici di tale periodo.
Sempre nella località Schillaci, nei pressi della nota
grotta Impiso, si apre la grotta del Pecoraro in un naturale anfiteatro
terrazzato a mezza costa tra il Pizzo Impiso ed il monte Santa Margherita.
Lungo i sentieri che conducono in prossimità della grotta, si raccolgono,
oltre una buona quantità di selci lavorate, frammenti di ceramica sia
acroma che invetriata di periodo indefinibile, segno evidente di una
notevole frequentazione in periodi storici diversi.
Gli indizi più antichi e meglio rappresentativi
dell'attività umana si datano al Paleolitico superiore, come rilevato per
la maggior parte delle cavità delle Piane dei Colli e di Gallo. Numerose
sono le selci lavorate raccolte, frammenti ceramici attribuibili alla
cultura di Thapsos ed un considerevole numero di trochidi, di patelle
cerulee e ferruginee, di frammenti di ossa di cervi, di volpi ed anche di
parti osteologiche umane, tra cui un incisivo ed una falange. Nel versante
settentrionale del monte in una delle zone più spettacolari e scenografiche
con ampia vista sulla costa marina Nord-occidentale sino a Punta Raisi, si
aprono la grotta ed il riparo Mazzone, abitate sporadicamente in periodo
preistorico, forse perché non facilmente raggiungibili, date le impervie
condizioni naturali. Le cavità sono poste ai piedi della parete poco al di
sotto dell'imponente edificio, dell'ex Semaforo militare, regno
incontrastato di conigli, volpi e colombacci, in una zona che degrada sul
sottostante Ma-lopasso, dove le onde del mare sono a diretto contatto della
irta falesia. Come non ricordare, in questa occasione, le due necropoli di
Partanna e del Giusino a Valdesi, oramai perse del tutto?
La Conca d'Oro e i Colli all'inizio dell'Eneolitico,
furono stabilmente abitati da piccole tribù di cacciatori-raccoglitori, che
tra le tante attività quotidiane, si dedicarono anche all'allevamento degli
animali addomesticati. Qui tra i 3.500 ed i 2.200 anni or sono, gruppi di
uomini vissero nella Piana in villaggi capannicoli stabili, sfruttando il
territorio prodigo di svariate risorse agricole, avendo abbandonato
gradualmente i rifugi in grotte e i ripari sotto roccia. Si tratta di un
ampio periodo della preistoria che vide un rilevante pullulare di
insediamenti in tutto l'agro palermitano ed in particolare nel comprensorio
tra Val-desi, Mondello, Partanna, Tommaso Natale, Sferracavallo e Cardillo.
Ricordiamo infatti, nell'ambito del medesimo monte Gallo i materiali di
questa facies provenienti dal versante Sud-occidentale in contrada
San-tocanale-Spinasanta. Poco distante, già in piena pianura, si trovavano
gli insediamenti localizzati presso la villa Scalea ai Colli e poco oltre
quelli nel fondo Anfossi-Valdesi. Purtroppo i reperti archeologici raccolti
in queste zone, sono frammen-tari ed i dati alquanto imprecisi, poiché essi
non provengono da scavi regolari, bensì da fortuite scoperte effettuate a
partire da qualche secolo fa. Oggi la zona, come già ricordato, è
profondamente insediata ed inibisce, pertanto, ogni ulteriore possibilità
di approfondimento stra-tigrafico e topografico. Tuttavia da quel poco che
si riesce a comprendere attraverso le notazioni esistenti e da ciò che
sappiamo di usi, costumi e modelli insediativi in voga nel III millennio a.
C, siamo certi che in una situazione di palude boscata quale era il
comprensorio in oggetto, dovevano coesistere vari piccoli nuclei dotati di
poche capanne con annesso sepolcreto. Questa vicinanza era resa possibile
da un eco-sistema vivo che garantiva possibilità di drenare risorse non
soltanto dal bosco e dall'attività agropastorale ricavate dalle radure e
dai margini delle paludi, ma anche dalle paludi stesse ricche di biomasse
animali e vegetali.
Le montagne circostanti non suscitavano attrattive come
sede di insediamento, ma dovevano costituire occasione di sfogo per
inevitabili conflittualità che potevano sorgere tra le comunità stanziate o
per le terre da pascolo o per gli armenti. In particolare la nuova
"cultura" apporta un'architettura tombale ed un rito di seppellimento del
tutto rivolu-zionari: la posizione dell'inumato, l'orientamento e la
disposizione del corredo, sono del tutto peculiari. Le tombe, dette a
"forno", erano scavate nel sottosuolo tenero con pozzetto verticale
d'accesso con una o due cellette opposte o vicine ad esso e chiuse da una
pietra ritta. La denominazione di tomba a "forno", piccola cella funeraria
di circa m. 1x1, sembra provenire dalla somiglianza tipologica con i forni
a legna per la cottura del pane, utilizzati ancor'og-gi nelle nostre
campagne. Le numerose tombe che costituivano le necropoli vennero
impiantate sui banchi d'arenaria, che nella zona sì rinvengono numerosi,
tra i pendii dei due monti e la Piana dei Colli. I loculi erano destinati
ad ospitare uno o più individui che venivano introdotti in posizione
rannicchiata e contenevano corredi talvolta abbastanza ricchi, composti
prevalentemente da strumenti e da armi in selce e da vasi d'impasto in
parte a superficie nerastra. Ulteriori prospezioni superficiali sono in
corso, da parte della nostra Associazione "Mirto Verde" nella fascia
pedemontana e sugli impervi canaloni del monte santa Margherita, del
Vallone del Pizzo della Sella, del Vallone del Bauso Rosso e sugli antichi
accessi, soprattutto nel versante della località Cassina, a Sferracavallo,
uno dei posti più belli ed integri del monte Gallo. Lo scopo è quello di
redigere una par-ticolareggiata carta archeologica dell'intero
comprensorio, che possa comprendere tutte le zone da salvaguardare, rendere
note e riconsegnarle nelle mani delle future generazioni e tutte quelle
emergenze architettoniche, sparse un po' ovunque. La stesura di una carta
archeologica, vuole essere un contributo che noi vogliamo offrire alla
collettività tutta, affinchè ne abbia una migliore conoscenza e possa
fruirlo come abitualmente fa con i BB AA di altre città, che magari non
possiedono la grande quantità e la ricchezza dei siti, alcuni dei quali,
non è mai troppo affermarlo, unici al mondo.