A Palermo gli
appartenenti a questa categoria di molluschi vengono chiamati Babbaluci,
il cui nome deriva, presumibilmente dall’arabo "babush", che
indicava le scarpe da donna con la punta ricurva verso l’alto, difatti
le pantofole di pezza in siciliano sono chiamate “babuscie”.
Le chiocciole, dette anche lumache, sono un alimento
molto diffuso in Sicilia, i palermitani ne sono veramente molto ingordi
e, vengono consumate durante l’estate e precisamente da giugno a
settembre.
Certuni esperti indicano invece la provenienza dal greco arcaico “boubalàkion”,
bufalo, a cui veniva paragonato il “babbaluciu” per via delle corna.
E proprio dalle corna di questi gasteropodi terrestri
derivano anche le celebri note di
“Viri chi danno ca fannu i
babbaluci
ca cu li corna ammuttano i balati,
si unn'era lestu a darici
na vuci,
viri chi dannu ca fannu i babbaluci”.
Canzone ripresa in versione ska da Roy Paci che lega
alle corna di queste lumache una sorta di ostinata determinazione.
Vedere ai primi di giugno dal fruttivendolo o
verduraro, centinaia di lumache in attesa, all’interno di un grosso
paniere di vimini, dell’inaspettato rituale annuale che i palermitani si
accingono a fare, e muoversi con lentezza ignari della sorte che li
aspetta.
In precedenza i venditori ambulanti e non, si sono
recati nei campi a raccoglierle per poi venderle ai vari avventori, una
volta anche le famigliole andavano a lumache, era il pretesto per
un’uscita fuori porta e godersi i primi caldi primaverili e vedere il
grano maturo pronto per la raccolta.
Una volta “u babbaluciaru” era un mestiere definito,
si alzava di buon’ora in autunno e in inverno per raggiungere la
campagna subito dopo un’abbondante pioggia per raccogliere i “crastuna”
(le lumache dal guscio scuro e molto più grosse), si avviava verso la
città, dove percorrendo le sue strade, così “Abbanniava”: ”C’è ù babbaluciaru ! Haj i crastuna nivuri! Accattativi i crastuna!"
In estate, invece, raccoglieva quelle piccole e con
il guscio bianco, che innumerevoli e a grappoli si trovavano attaccate
sugli steli rinsecchiti di molte piante erbacee o in cardi spinosi, arse
dal cocente sole, che tra luglio e agosto trasforma le verdi campagne
siciliane in apocalittici ed aridi deserti.
L’uso delle lumache per scopo alimentare risale ad
epoche remote e almeno sin dai tempi dei Sicani, da come è documentato
dai ritrovamenti di diversi ingrottati della Sicilia, a Sambuca di
Sicilia nella grotta di Isaredda è stato trovato un reperto di pasto
dove predominano questi gasteropi.
Ora piatto rinomato, ora cibo da contadino, nella
storia delle tradizioni gastronomiche le lumache sono sempre presenti, e
le testimonianze più antiche del loro utilizzo in Sicilia, arrivate a
noi, risalgono agli antichi Greci.
Questi molluschi gasteropodi terrestri, già
conosciuti nell’antichità erano molto apprezzate dal popolo romano, fino
al punto di allevarle in appositi recinti e di nutrirle con carne,
farina di farro e mosto cotto.
Plinio e Varrone ne hanno scritto e Trimalcione, il mitico buongustaio,
le faceva servire nei suoi banchetti arrostite in graticole d’argento.
Visto che i Greci e Romani le prediligevano notevolmente, nel 49 a.C.,
come riporta Plinio il Giovane nella sua "Naturalis Historia", Fulvio
Lippino inventò le prime tecniche di allevamento e, trasportava le
lumache, provenienti dalla Sicilia, a Roma tramite navi “onerarie”, per
soddisfare la propria clientela.
Anche nel medioevo venivano consumate in abbondanza
perché si credeva costituissero un efficace medicamento contro alcune
malattie del fegato, contro la magrezza e nei casi di esaurimento.
Nella medicina popolare siciliana venivano impiegate per rituali vari:
schiacciate e messe su un patereccio, lo portavano subito alla
maturazione.
Pestate e unite a poco lievito (“criscienza”) si
applicavano sull’occhio ammalato di congiuntivite, associando questa
applicazione con una buona recita di apposite litanie si otteneva una
rapida guarigione.
Nei secoli successivi in special modo nel settecento i molluschi
terrestri scompaiono dalle tavole dei nobili, specialmente in Francia
dove questo uso era molto rinomato e ripreso nelle epoche successive,
per rimanere un alimento della dieta dei meno facoltosi.
Almeno fino all' inizio dell' Ottocento, quando
ricomparvero per merito del principe Talleyrand, che nel 1814 le offrì
in un banchetto allo zar Alessandro I, da allora la lumaca non è più
scomparsa dalle tavole, ancora oggi la tradizione continua, l' uso è
molto diffuso, oltre che in altre località dell' Isola e dell' Italia,
in tutto il mondo.
Nella ritualità palermitana in occasione del Festino per Santa Rosalia,
in una situazione in cui gli componenti profani si mescolano e si
fondono a quelli religiosi creano quella forma peculiare di religiosità
popolare che contraddistingue il popolo siciliano e palermitano che
affonda le sue radici in quella che fu la dominazione spagnola.
Il Festino per i palermitani non è una festa dal
carattere diminutivo lessicale, anzi al contrario è qualcosa che innalza
la ricorrenza principale della città.
E come avviene in molte delle feste siciliane,
religiose e non, nelle manifestazioni e nelle ricorrenze legate ai cicli
produttivi, spesso rivisitate dalla tradizione cristiana e con radici
pagane più o meno evidenti, anche nel Festino di Santa Rosalia il cibo
occupa un ruolo di primo piano.
Quello che i palermitani sono soliti consumare in
occasione di questa ricorrenza è un cibo semplice, povero, che lascia
trasparire l’origine popolare della festa, rimandando al sostrato
socio-culturale del tempo a cui risale.
E così, nelle bancarelle allestite al Foro Italico,
lungo la via Messina Marine, nelle stradine e nelle piazze confinanti
dove si esalta il “cibo di strada”, sono i “babbaluci” a farne da
patrone.
La consuetudine di consumare questi molluschi, che le
campagne siciliane offrono abbondanti nel periodo estivo o autunnale a
seconda della specie, risale come si è detto in precedenza al tempo dei
romani, in tempi più antichi, preistorici, i primi abitanti dell’isola
si sono nutriti di questi molluschi.
Il Pitrè nel suo volume dedicato alle “Feste
Patronali in Sicilia” ci riferisce dell’enorme consumo che fanno i
palermitani durante le manifestazioni del Festino di Santa Rosalia, di
babbaluci cucinati
a “picchi-pacchiu”, cioè bolliti e conditi con pomodoro fresco, pelato
della sua pelle e ridotto a dadini e il tutto soffritto in un grande
pentolone di rame con cipolla e aglio rosso fresco, una manciata di
prezzemolo e sale e pepe quanto basta.
Ma i classici “babbaluci” del Festino dopo che si
fanno bollire si fanno soffriggere con l’aglio in olio d’oliva, sale e
pepe nero in abbondanza e spolverati da una manata di prezzemolo.
La porzione tipo è il piattino, su quanti “piattini”
possa fare fuori un buon palermitano in una notte del Festino, non si
quantificano.
Il tutto annaffiato da abbondante vino locale, anche
se nel mese di luglio la temperatura elevata non è ideale per tale
bevanda.
A Palermo è usanza mangiarli con le mani, ma la
tecnica per tirarli fuori dal guscio è davvero particolare: alcuni
utilizzano gli stuzzicadenti per infilzare e tirare fuori il mollusco,
era consuetudine anticamente per evitare la poco signorile “sucata” alle
giovane dame, veniva concesso l’uso di un uncino d’argento.
Altri, palermitani doc, procurano alla conchiglia,
con un dente canino, un buco piccolo piccolo opposto all’apertura del
nicchio testaceo, in modo da creare un canale d’aria che farà uscire il
babbaluciu, nel momento della suzione, si perché i babbaluci vanno
“succhiati e non saziano mai”.
Difatti c’è un detto che dice: Ziti a vasàri e
babbalùci a sucàri nun pònnu mai saziàri.
Dal punto di vista organolettico i “babbaluci” hanno
carni tenere, con pochi grassi e con un livello proteico affine a quello
del pesce, a rendere poco leggeri è il soffritto composto con
l’ingrediente principale che è l’olio d’oliva.
Sono tre i tipi di lumache terrestri utilizzate per
l’alimentazione in Sicilia: i “Babbaluci” o “Vavaluci”: Helix Theba
pisana, che si caraterizzano per essere piccoli e bianchi; con
lievissima striatura eliocoidale bruno-chiaro.
A volte della stessa famiglia comprendono le vere e
proprie lumache o chiocciole, bianche con la striatura scura e sono un
po’ più grandi chiamate “vaccaredde”.
Hanno le carni più dolci se raccolte sulle vigne,
sugli spinosi "scoddri" o sulla "restuccia", prelevate su altre essenze
botaniche come ruta, ferla e satareddu (timo) hanno sapore amarognolo.
Gli “Attuppateddi”: Helix naticoides, che hanno una
membrana grossa e scura; chiuse, (da qui l'etimologia attuppateddi) per
proteggersi dalla disidratazione, da un opercolo calcareo bianco
perlaceo che sintetizzano con la bava stessa.
Infine i “Crastuna”: Helix vermiculata, di dimensioni
maggiori rispetto alle altre i "Muntuni", il colore delle conchiglie è
bianco con fasce bruno-marroni, prediligono le aree costiere e si
riparano in prossimità dei muri di recinzione tufacei, sotto massi di
tufo, o si nascondono tra le zabare (agavi).
I muntuni sono lumache molto voraci che divorano
qualsiasi vegetale e anch'esse riescono a resistere alle nostre torride
temperature estive, alle prime piogge però queste lumache si risvegliano
e riprendono a mangiare.
Questi nel dialetto che si parla in provincia di
Palermo, senza considerare le numerose varianti locali dell’isola.
È molto interessante vedere ancora a Palermo alcuni fruttivendoli, e
soprattutto quelli dei grandi mercati, proporre e vendere questi
molluschi già pronti da mangiare.
Anche gli avventori delle “taverne” trovano questa
prelibatezza “cornuta” pronta da gustare per “assuppari ù vinu”.
Quest’ultima trova la bevanda indicata per questo
genere di molluschi, c’è un detto che dice: “Cui vivi acqua ccu li
babbalùci, sunàti li campani pirchì è mortu”: mai acqua, ma un bicchiere
di buon vino, anche locale.
Il segreto per una buona mangiata di “babbaluci”,
consiste nella “spurgata” prima di essere cotte, in altre parole tenute
a digiuno per almeno tre giorni.
Metodo conosciuto fin dall’antichità, lo provano la
presenza di alcuni reperti fittili, ( due “pignate”) custoditi al Museo
Paolo Orsi di Siracusa, consistenti in una sorta di recipiente circolare
di circa cinquanta centimetri di diametro, poco più di quindici di
altezza, con un coperchio a piccoli fori per permettere ai babbaluci di
farli purgare chiusi per diversi giorni affinché svuotassero gli
intestini.
Oggi per effettuare la pulizia si alimentano per tre
o quattro giorni con farina, crusca o pane raffermo o grattato, in un
cesto ricoperto di uno strofinaccio in attesa di essere cucinati.
Si usa principalmente con “crastuni” e “attupateddi”
perché, uscendo dal letargo brucano qualsiasi vegetale, erbe velenose
comprese, che per loro non sono dannose.
In famiglia la “spurgata” si effettua a casa, subito
dopo per cucinarli si effettua una lunga lavatura, in modo da togliere
tutti i residui del guscio e interni.
Dopo che l’acqua risulta pulita, vengono immersi in
una grande pentola e si mettono al sole, aspettando la loro fuoriuscita
dal guscio, nel bordo della pentola sarà cura di chi la predisposto di
approntare intono ad esso del sale fino inumidito.
Appena questi saranno tutti fuori per via del calore,
si ricambia l’acqua e si pongono sul fuoco lento per alcuni minuti.
Subito dopo si “apparecchiano” con un soffritto di
olio d’oliva e aglio rosso, si cospargono di pepe nero e di una grossa
manciata di prezzemolo…”è viri chi manci”.
“Quelle del Festino” vengono approntate da chi
organizza i deschetti per la vendita: grossi pentoloni di rame
contengono i babbaluci che giorni prima sono stati a spurgare e lavati
in continuazione, per impedire alle lumache di fuoruscire dal pentolone
si cospargono di sale da cucina umido i bordi.
Una volta fuori usciti, le “quarara” si mettono sul
fuoco, a cottura ultimata, si elimina l’acqua versando il contenuto dei
pentoloni in ceste di canna e olivastro.
Le lumache scolate e ancora fumanti si mettono in
recipienti per essere condite con prezzemolo, pepe nero e il soffritto
di olio d’oliva e aglio rosso, pronte per essere consumate.
Quelli “a picchi pacchiu” seguono la stessa procedura
per la spurgatura e la lavatura, bollite a fuoco un po’ più ardito si
scolano e si depongono in un tegame si fa soffriggere in olio d’oliva la
cipolla tritata, si aggiungono dei pomidori pelati a pezzetti, sale e
pepe quanto basta.
Ristretto la salsa di pomodoro si aggiunge il prezzemolo e le lumachine,
“cose di gente raffinata”…
Per molti secoli sono stati una componente
essenziale, sia pure stagionale, della dieta contadina, dall’alto valore
proteico e dal costo nullo o piuttosto contenuto.
BIBLIOGRAFIA:
G. Pitrè - Feste patronali in Sicilia - ed. Edikronos. – rist. an.
1974.-
C. Di Franco - Un po’ di Palermo – il Festino – ed. Graffil – Pa 2005.-
G. Coria - Profumi di Sicilia - ed. Cavallotto – 1981.-
A.A. Savarese – Sicilia Antropologica. Ed. Publisicula – Pa 1992.-