Quest’ultima pratica che consisteva nel far uscire il sangue venoso per
scaricare il letto sanguigno, due furono essenzialmente le pratiche
usate: l’apposizione di mignatte o sanguisughe per il salasso a” cielo
chiuso” e l’incisione a mezzo di salassatore (flebotomia) per il salasso
“ a cielo aperto”.
Trentasette erano le vene superficiali che permettevano la possibilità
di salassare un individuo, abitualmente si preferivano sempre quelle
classiche del braccio, all’altezza della piega del gomito, la cefalica
per la sua nettezza di visibilità e volume ampio.
Quando questi erano insufficienti si ricorreva a quelle della mano o in
ultima possibilità a quelle del piede.
Conosciuto fin dall’antichità, se ne fece grand’utilizzazione nel
XVII-XVIII secolo, fu di grande importanza nella tradizione e nell’uso.
Il salasso (sagnia, in siciliano, con singolare trasposizione si
perviene a stagnari) era considerato un tocca sana che si praticava per
la salute del corpo, un antico precetto popolare proponeva il suo uso in
qualunque caso, perché i suoi benefici erano considerati fondamentali,
anche se l’individuo non n’aveva di bisogno.
Utilizzato come preservazione, si faceva in una certa quantità e sotto
certe condizioni, la prima regola era data dall’altezza dell’individuo,
più alto era questo, più abbondante il salasso e viceversa.
La misura di sangue da togliere è determinato dal recipiente formato da
un vaso con la bocca larga con bassa profondità chiamato “ervanetta”
capace di contenere “quattro unzi”, “un’unza” è uguale a 25 grammi.
Risultati inaspettati ci si attendeva dal salasso, in special modo era
utile per sopperire l’infiammazione degli organi respiratori: nella
polmonite e nell’ascite.
Tre erano i dettami igienici che la popolazione doveva considerare, il
salasso una volta l’anno, un bagno al mese, un pasto al giorno, ma erano
pure da considerare che non tutti i giorni dell’anno erano considerati
ottimali per eseguire questa pratica.
Era devozione salassarsi per il 24 giugno, giorno dedicato a San
Giovanni Battista, era reminescenza che bisognava scaricare un po’ di
sangue prima che giungesse la stagione estiva, com’era consuetudine
farlo ad ogni entrata di stagione.
A Palermo, il giorno di
San Valentino era costumanza che nobili e plebei
si salassavano, com’era reverenza effettuarlo in certe festività
solenni, o ogni qual volta che la luna si presentava a nuova facciata.
Nei conventi e nei monasteri d’ogni ordine era una consuetudine almeno
un paio di volte in un anno solare, i frati e sorelle lo accettavano di
buon grado.
Era fatto divieto al barbiere con bando municipale del protomedico di
Palermo a salassare i ragazzi al di sotto dei quattordici anni, alle
donne gravide e agli uomini incartapecoriti.
Riuniti in Maestranza dovevano osservare dei “Capitoli”, dove oltre ad
alcune regole comportamentali e da rispettare, vi erano alcune clausole
che richiamavano gli esami da sostenere che consentivano l’abilitazione
ad esercitare quest’arte, difatti dopo un lungo periodo da garzone e
lavorante, venivano esaminati da un apposito collegio che li abilitava
ad esercitare.
Nel 1642 l’esame che il candidato doveva sostenere consisteva
nell’affidare lancette spuntate, forbici scheggiate e rasoi non
acuminati per costatare se l’esaminando era in grado ad affilarli.
Oltre a saper praticare le sopra citate attività, essi si attribuivano
il diritto di saper aprire fontanelle (punto di riunione delle diverse
suture del cranio), a sistemare ossa, a svuotare ascessi, foruncoli e
escrescenze, questi erano considerati come sfogo dell’organismo e,
quando si presentavano erano un buon indizio per la salute.
A medicare ferite e piaghe, in casi eccezionali potevano trattare anche
le ferite penetranti in cavità, innestavano il vaiolo, curavano i “mali Francisi” (malattie veneree), adoperava la cauterizzazione per fistole
superficiali ed infine rimettono in buono stato slogature (sfilature).
Solitamente avevano bottega sotto la loro abitazione ed erano obbligati
a farsi riconoscere affiggendo l’insegna (segni di gelosia li riporta il
Pitrè) che consisteva nell’esporre almeno due degli arnesi utilizzati
nel loro lavoro.
Il bacile anatomico per adattarsi al collo, un gran piatto concavo per
contenere liquidi, una pinza per estrarre i molari o la figura dipinta
in una tavoletta che ritrae un uomo ignudo, dalle cui vene zampilla
sangue in varie direzioni.
Oltre ai sopra citati arnesi, era costumanza di esporre la pianta e la
persiana, a partire dal quattrocento erano raggruppati nella via ora
denominata dei Cassari, adiacente alla Porta Carbone ed adiacente
all’abbeveratoio pubblico, dove sussisteva un ‘incessante andare e
venire di gente di ogni sorta sociale.
La bottega provvista di tutto punto, in pratica di tutto quello che
costituiva l’indispensabile per esercitare in condizioni ottimali la
professione, doveva essere attrezzata dall’elenco della seguente
attrezzatura:
Bacili di rame di ogni dimensioni, rasoi e la fondamentale
pietra per affilare, boccali di bronzo, lavacapi, grandi candelieri di
bronzo a quattro o a sei moccoli, specchiere, tovaglie di varie qualità
e grandezze, bollitore per l’acqua, armadi dove vengono riposti vari
astucci con coppette, pinzette di varie misure, siringoni, contenitori
per empiastri, lacci per l’emostasi, forbici, specilli, cannule,
lancette, spugne, stiletti ed altri arnesi.
A lui la gente si rivolgeva per aver praticato un
enteroclisma
(clistere), “lavanna”, armato di un grosso siringone iniettava una
quantità variabile di liquido o mediante un recipiente in vetro
“irrigatore” con un tubo ascendente o una peretta.
Utilizzati per eliminare meccanicamente la stipsi si adoperava l’acqua
semplice o tiepida o salata in una certa percentuale o con decotto di
radice di bismalva, medicamentosi si utilizzavano alcuni insolventi
d’erbe medicinali per l’affezione d’alcune malattie intestinali.
Oltre a praticare questi metodi di cura, si trattavano con discrezione,
spesso definite vergognose, le malattie veneree.
Dove il salasso per un motivo di pratica non era possibile eseguirlo, si
ricorreva all’applicazione delle sanguisughe (sancisuchi o mignatta),
esse costituivano la fortuna di certi “varvieri” che la gente definiva
di maniera raffinata saper impiegare queste nuove tendenze.
La “mignatta” piccolo verme dal nome scientifico “phylum” classificato
“Hirudo medicinalis” abbastanza diffuso in prossimità di stagni e laghi,
definito comunemente un parassita per la sua struttura della bocca che
possiede una ventosa con cui aderisce alla pelle dell’ospite
succhiandole il sangue, mantenuto fluido da una sostanza anticoagulante
appositamente secreta (irudina).
Presentati all’interno di un grosso contenitore di vetro, mostravano la
ventosa alla parete del vetro, e facevano bella mostra dentro lo
scaffale della bacheca, pronte per essere utilizzate, acquistate dal “mignattaru”,
mestiere questo che rendeva tanto e aveva una sua dignità e riconosciuto
attraverso una specifica tabella di legno dipinta, dove vi era
rappresentato un tunisino che raccoglie le mignatte che
involontariamente vi si attaccavano agli arti inferiori”, li prendeva
presso luoghi fangosi e, li teneva conservati in mezzo alla creta dentro
recipienti di legno tenute chiuse da uno straccio di tela grezza.
Ordinariamente attaccate dal “varviere” per gli uomini, alle donne ci
pensava la moglie specialmente in parti un po’ sconce.
Il salasso alle spalle (sagnia di li spaddi) si otteneva per via delle
scarificazioni (incisioni) e, con l’applicazione di coppette che avevano
la funzione di ventose (vintusa a siccu).
Le coppette sono piccole coppe di vetro, a volte sostituite con
qualunque bicchierino di vetro robusto, dove veniva introdotto un
batuffolino di cotone (bambagia) usato come moccolino che unto
nell’olio, bruciandosi, la mancanza d’aria faceva spegnere la fiamma,
procurando il vuoto, per poter tirare sangue dalle incisioni procurare
dal barbiere con il rasoio o lasciava arrossare la pelle che permetteva
la sua trasudazione con il passaggio di siero.
Meno utilizzati dal salasso erano i vescicanti, pratica che serviva a
provocare il richiamo di liquidi localmente attraverso l’insorgenza di
flittene e bolle, venivano applicati dal barbiere per curare il catarro
di petto, per gli ingorghi ghiandolari del collo e per la “rosalia”.
L’applicazione consisteva nel cospargere la parte interessata di polvere
di cantaride, ricavata da un piccolo insetto dell’ordine dei coleotteri
etereomeni che vive e si nutre di foglie del frassino e dei lilla,
ottenuta dal schiacciamento del suo corpo che contiene un olio verde non
vescicante ed un principio vescicante, il principio attivo è la
cantaridina usata per uso esterno e diuretico.
Previa pulizia della cute e il riscaldamento del vescicante, si
applicava il tutto fissandolo con un bendaggio che veniva lasciato per
alcune ore: quattro per i ragazzi, otto per gli adulti.
Per lungo tempo il barbiere prescriveva ed eseguiva, tastava con molta
sicurezza il polso e sapeva distinguerlo se chiuso, piccolo e inceppato
(accupato) a questo punto egli promulgava una necessaria e urgente
cavatina di sangue.
Salassare era benefico sia per il mal di cuore, sia nelle coliche
nefritiche, alle spalle per scarificare se c’era dolore di capo
(cefalea), all’ano con mignatte se il dolore era intenso e pungente
(emorroidi).
Grande era la fiducia che gli riversavano sia gli ammalati che i medici,
nel saper formulare e risolvere piccoli problemi corporali, sapeva
tastare il polso e toccare la lingua e soprattutto formulare diagnosi e
ordinare medicine per sapendo che egli era completamente analfabeta.