Il
cielo notturno, nero di colore, nel cuore della notte si gremisce di
fasci a fiori luminosi, di composizioni fantastiche, d’ombrelloni
fittizi dai mille colori che scoppiano tra boati, tuoni echeggianti e
sordi brontolii, scomparendo immediatamente nell’immensità celeste.
Sono i
fuochi che nella sarabanda delle feste popolari, a degna conclusione
d’ogni solennità tradizionale, incendiano le effimere illusioni degli
uomini che intendono rinnovare o smembrare un proposito.
Schizzi
tambureggianti di colori astrali, ventagli immensi, serpentelli, piogge
d’oro, girasoli, stelle filanti, sciami di farfalle verdi e bianche,
inseguiti ora da bombe che scoppiano “a sfera” o a “raggera”, e ora da
razzi matti o razzi sibilanti o scendono a pioggia come la chioma di un
salice piangente.
Questa
antichissima tecnica artistica di preparare i fuochi giunse in Europa e,
prima ancora dall’Arabia, dalla Cina intorno al XIII secolo e i primi a
dedicarsi in Italia sono stati, nel trecento i Bolognesi e i Fiorentini,
per noi palermitani ci pensarono gli spagnoli che ci trasmisero l’uso
della polvere da sparo.
I
“fueriddara”, fuochista ovvero i fabbricanti di bombe e di “giuochi di
fuocu” come comunemente vengono chiamati dai palermitani, risalgono
intorno alla metà del seicento in Sicilia e a Palermo in particolare, di
sicuro le notizie a tale scopo sono molto indeterminate.
Dalla
semplice struttura a forma di ruota che scoppiando giravano velocemente
creando cerchi di fuoco a vere e proprie macchine sceniche che per la
loro costruzione venivano chiamati architetti di grido di quel tempo.
Si sa che nel 1653 a Palermo venne costruita una singolare “macchina”
pirotecnica che servì a festeggiare le vittorie della Spagna in
Catalogna e nelle Fiandre.
Era consuetudine celebrare le vittorie o manifestazioni militari con
l’utilizzo di fuochi artificiali che erano impiegati da competenti
dell'esercito che manipolavano le armi e la polvere da sparo.
Nel
seicento e nel settecento, nelle ricorrenze religiose, fu il trionfo dei
“mortaretti” ed i “masculiate”, delle “fontane” e dei “sorfarelloni
d’aria”, questo si concludeva in piazza con l’incendio di “macchine" di
vario genere.
Destavano
meraviglia le macchine barocche approntate per il
Festino di Santa
Rosalia, composte da una ossatura di legno con un assetto piramidale e
venivano ancorate al suolo secondo la tecnica di carpenteria, e
presentavano due o tre piani sovrapposti che fungevano da parti per il
calpestio utilizzati sia per la costruzione che per la presenza degli
artificieri che durante lo spettacolo si muovevano per il brillamento
dei fuochi.
A
queste strutture a piramide venivano applicate gli allestimenti in
cartone e cartapesta, opportunamente trattati con gesso dolce e poi
pitturati.
La visione che veniva data allo spettatore era quello di
prospettive di edifici, castelli, colonnati, fontane, vascelli ecc., a
cui si applicavano per un migliore utilizzo
le
luminarie, per
rischiarare lo spazio della prospettiva.
Così disposte recavano l’attrezzatura necessaria per lo sparo dei
fuochi, a spettacolo avvenuto si concludeva con un gran fragore che ne
determinava la sua distruzione.
L’allettamento di questi giuochi di fuoco non si apprezzava tanto, in
quanto non erano colorati, per questa ragione bisognò aspettare circa
due secoli, dove si capì che per produrre i colori bisognava incorporare
alla miscela alcuni particolari composti metallici.
Con
i progressi della scienza nel campo della chimica, che dava la
possibilità di mescolare determinate sostanze che erano in grado di
detonare e si accompagnavano a fenomeni luminosi e sonori con presenza
di fumo in questa applicazione germogliò la pirotecnica che studia i
metodi per la preparazione e l’impiego di sostanze chimiche come la
composizione della polvere pirica di cui è costituito il mezzo
esplosivo.
Questa polvere detta anche nera o di salnitro è la polvere da sparo ed è
composta da una miscela di nitrato di potassio, di cui è percentuale più
alta, da carbonella e di zolfo, che associandosi sviluppa ossigeno che
reagendo da calore e luce.
Un
trattato su quest’argomento “De Pirotechinia” fu scritto dal senese Vennoccio Biringuccio che visse intorno alla fine del quattrocento e la
metà del cinquecento, un alchimista che s’interessò di questo studio,
nel fra tempo in tutte le città della penisola italica compreso le due
isole maggiori, si diffondeva lo spettacolo del “fuoco” che
successivamente furono chiamati “giochi d’artificio” che nel XIX secolo
divennero popolari in tutto il mondo.
I
pirotecnici palermitani “fueriddara o masculari”, facendo largo uso di
sostanze piriche coloranti, poterono cimentarsi in invenzioni più
impegnative e spettacolari.
Oggi si sono raggiunti effetti straordinari, rispetto a quelli antichi
come nell’ottocento che fu il periodo in cui questa tecnica venne
perfezionata.
Da alcuni nitrati, si ottengono l’oro e l’argento, dallo zinco,
dall’arsenico, dall’antimonio e da alcuni loro composti, la fiamma
bianco-azzurrognola; da una miscela di rame e piombo, quell’azzurra dal
bario, la fiamma verde chiaro, e da certuni elementi del rame, quello
verde cupo, il rosso-carminio si ricava da miscele di stronzio, da
talune mescolanze di potassio la fiamma violetta chiara, utilizzando
solo il nitrato di potassio se ne attinge il bianco.
Gli
effetti dei colori, il loro splendore, la rapidità della combustione
delle varie miscele, insieme con gli accorgimenti di sicurezza che
tendono ad eliminare le possibilità d’infortuni, sono nel secreto dei
“cartocci” che vengono preparati dai “masculari” prima di ogni
avvenimento in appositi spazi in località lontani dai centri abitati.
Il vecchio sistema, basato sulla preparazione d’involucri cilindrici di
carta arrotolata, anticamente la carta utilizzare per questi involucri
era quella dei sacchi di cemento o del frumento che essendo molto
resistente si prestava molto bene per creare una “camera di
combustione”.
Tutto
oggi da questo sistema non sì c’è spostati tanto, l’astuccio cilindrico
si ottiene da una forma di legno che varia di misure, composto da
cartone e carta incollati assieme, al suo interno vengono sistemati i
colori e la miscela esplosiva per l’apertura aerea, il margine superiore
dell’astuccio viene chiuso da un tondino di cartone che a suo tempo
conterrà la “spoletta”.
Le spolette legate con spago e colla contengono la miccia o il stoppino
per l’accensione, questo tipo di lavoro si chiama “spolettare”, la
“spolettatura” permette di collegare i vari “cartocci” al disegno in
precedenza costruito per effettuare la rappresentazione.
Vari
sono i disegni aerei: a ruota, a palma o a cuore, essi accompagnano la
festa del cielo, per lanciare i “gli involucri” si utilizza un tubo di
ferro (mortaio) e possono essere di vario calibro da 10 sino a 17 e di
differente altezza, secondo la gittata prestabilita, nelle fasi
iniziali, gli antichi e rudimentali mortai esplodevano nel cielo “bombe
primordiali” che formavano figurazioni a forma di fiori.
Ogni “bumma”,
grazie all’innesto di una spoletta che regola il tempo, può compiere da
una a dieci aperture “spaccàti” con un contraccolpo finale, diversi tubi
collegati formano a conclusione la tradizionale “masculiata” palermitana
(i buotti o bummi).
Tra gli artifici più comuni troviamo i petardi o “tricchitracche”
(piccoli petardi che esplodono in sequenza per produrre rumore) e un “folgoretto”,
piccolo razzo senza asta che emetteva un sibilo e saettava al suolo.
I
fuochi di terra che, originariamente sono i più antichi, sono riferiti
anche da giardino e prendono parte al trattenimento insieme con quelli
d’aria, generalmente composti da: girandole, fontane e cascate, figure,
soli, spirali, composizioni, templi, torri e palazzi.
Le girandole (rroti) sono fissate a robuste travi di legno e variano di
numero e di grandezza: da una a cinque, a dieci, a dodici, e contengono
diversi involucri legati a cerchio a questi sistemi rotanti.
La
“ruota” più grande, posta al centro, ne contiene comunemente una più
piccola che fa contemporaneamente “ ‘a furriata”, e cioè gira in senso
inverso.
Un’altra configurazione era la composizione, dopo che avveniva
l’accensione, per il gran botto si usavano i fuochi di bengala, che
annunciavano la visione del santo patrono, un grande drappo arrotolato
si svolgeva e mostrava l’effige del santo.
Per questa struttura e per le figure e le fontane ed altre sagome come
le cascate luminose, i pirotecnici ricorrevano ad apposite impalcature
in legno (ù lignamàtu), che preparavano in precedenza, su di esse
sistemavano i vari pezzi del “gioco di fuoco” già predisposti nei loro
laboratori.
“Il
sole”, simile alle ruote, con i fochi disposti in modo da non ruotare e
provocare solamente “raggi” di scintille luminose e le “spirali” tubi
arrotolati a forma di avvolgimento che ruotano velocemente dopo essere
stati accesi.
Per tutte queste configurazioni, i fuochi che si usavano erano quelli
preparati con il nitrato di potassio ( serie di “castagnuole”) che oltre
a produrre “fumogene” la quale scoppiando con un suono meno consistente,
producevano una grande nube e luce colorata di bianco che riuscivano ad
illuminare il manufatto, il loro effetto a volte poteva arrivare ad
un’altezza di venti metri dal suolo con un’apertura non superiore a
dodici metri.
Dopo il
XIX secolo il nitrato di potassio è stato sostituito dal clorato di
potassio, una combinazione che ancora oggi viene utilizzato per la
fabbricazione dei fuochi.
All’inizio e alla fine dello spettacolo per antica tradizione, sono di
rigore il colpo di “botto” fulminante, che avvisa gli astanti, lo
scoppio di quest’ultimo conclude di solito la incessante “masculiata”.
Una
nutrita e valente schiera di “fueriddara” cominciò a formarsi però a
partire dai primi del novecento nel palermitano, mentre nel resto
dell’isola tardò limitandosi alla città di Catania e Messina e, qualche
paese dell’entroterra.
Il nome
più grosso era quello degli Sgroi che a Palermo a rappresentato cinque
generazioni, erano gli unici che partecipavano a spettacoli pirotecnici
all’estero.
Accanto agli Sgroi, tramandavano degnamente la tradizione palermitana i
De Cristoforo, mentre a Misilmeri i più quotati erano i La Lia,
attualmente continuano a fiorire i Calamita.
Da
sessantenni a Bagheria esiste la ditta La Rosa che realizza nel settore
della pirotecnica fuochi d’artificio da ben tre generazioni.
Dagli inizi primordiali dove acquisita esperienza e competenza,
portandosi subito in luce, con il passare degli anni a immagazzinato in
questo settore una esperienza professionale così innovativa che oggi può
vantarsi si essere all’apice di questa arte.
I suoi spettacoli unici e affascinanti come quelli piromusicali d’ultima
generazione, sia dal vivo che da nastri magnetici, a fatto sì che la
loro bravura giungesse dalla Sicilia in tutta l’Italia ed in paesi
Europei e nel mondo, dove sono richiestissimi.
Oggi più che mai si avvalgono dell’utilizzo
dell’elettronica e, con l’appoggio dell’informatica eseguono memorabili
concerti con affascinanti luci e colori pirotecnici, tale è il successo
in occasione del Festino di Santa Rosalia a Palermo.
Nel corso dei secoli come si è appurato l’utilizzo della
pirotecnica, si è esteso sempre più, oggi non vi è ricorrenza civile o
religiosa che ne utilizzi quest’arte dove esiste tutto un settore
produttivo in cui piroettano, è il caso di dire, tutta una
concatenazione di operatori che vivono di questo mestiere.