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IL LAZZARETTO E IL CIMITERO A-CATTOLICO


Da "I Luoghi della Sorgente - la borgata Acquasanta a Palermo" di Giuseppe Alba

Dei lavori di completamento del Lazzaretto sito all’Acquasanta si parla nel dicembre del 1631 in uno dei decreti del Senato di Palermo: XXXIV “Capitoli (firmati da Mariano Smeriglio) di tutto l’intaglio di petra dulci che si haverà da fare nello novo Lazzaretto incomensato a fabbricare nella strada di l’Acquasanta”. (1)

Di redigere il progetto veniva incaricato Mariano Smeriglio - pittore, scenografo e incisore allievo del Camilliani - che il Senato palermitano aveva già nominato nel 1602 architetto della città. A lui si devono alcuni tra i più rappresentativi progetti dell’epoca, primo fra tutti quello per la realizzazione del nuovo Arsenale, bella interpretazione del manierismo italiano. (2)

Per l’edificazione di tale tipologia di fabbricati venivano privilegiati gli spazi posti nelle immediate vicinanze del mare, se non addirittura all’interno delle aree portuali, dal momento che il maggiore rischio di propagazione di malattie epidemiche era correlato allo scarico delle merci e delle persone infette. L’area dell’Acquasanta, pertanto, risultò ben adatta alla realizzazione di un lazzaretto.

Già tra il ‘400 e il ‘500, molte città in cui era presente un porto - e non solo quelle - si erano dotate di luoghi destinati alla quarantena, costruendo edifici adatti alla segregazione dal contagio. “Quaranta giorni” era, infatti, la durata tipica dell’isolamento cui venivano sottoposte le navi provenienti da zone colpite dalla peste già sin dal XIV secolo.
In realtà però, questo genere di locali ha origini molto più antiche. Nella Bibbia si parla di isolamento dei lebbrosi e, come osserva Giuseppe Giliberto nella sua opera sul Lazzaretto Di Palermo “quando le Crociate presero Gerusalemme dai Musulmani, nuovi stabilimenti si aggiunsero agli antichi sotto il titolo di San Lazzaro, dond’è venuto il nome di Lazzaretto”.(3)

Il Giliberto aggiunge anche la descrizione di un’evoluzione, e dunque di un incremento, di questi edifici in particolare durante la peste del 1576 che attraversò da Nord a Sud l’Italia decimando intere popolazioni.

I lazzaretti, per questa e per successive epidemie, furono pertanto necessari ed essenziali. Purtroppo il loro numero non fu sempre sufficiente a far fronte alle necessità dal momento che – come si legge nelle memorie del Giliberto - non era facile “rinvenire in tutti i luoghi un punto ventilato in mezzo al mare (...) che sia spazioso, non umido, non secco, avente comunicazione per una sola parte in terra, ed un porto capace di raccogliere dentro dei navigli”.

Ma tornando alla necessità di costruire un lazzaretto nell’area dell’Acquasanta, e all’effettivo inizio dei lavori, dobbiamo attendere il 1628 quando, ad opera del viceré Francesco Ferdinando de La Cueva, duca di Alburquerque, cominciò la realizzazione dell’opera all’interno del feudo Barca.
L’area interessata comprendeva il Piano Ciardone - così chiamato dall’omonimo fiume che vi scorreva - fino ad allora utilizzato prevalentemente come “stenditoio pubblico”. Il piano che era confinante con la Chiesa della Consolazione e l’annesso cimitero, si estendeva sino ad arrivare alla zona del Molo.

Il lazzaretto venne costruito utilizzando i locali di un magazzino preesistente adibito a deposito di cereali. Prima di poter avviare i lavori si dovette, però, risolvere la questione sorta con il Monastero di San Martino delle Scale che reclamava diritti di proprietà sull’area interessata. Il Senato palermitano per i terreni occupati dal Lazzaretto pagò allora al Monastero una somma pari a onze 1, tari 4, grani 10 annuali come stima inserita nel contratto di concessione enfiteutica per atto del notaio Cesare La Motta del 12 febbraio 1635.(4)

Gioacchino Di Marzo riporta che l’opera fu ultimata nel 1631 quand’era pretore il principe Francesco Valguarnera, spiegando così l’obiettivo dell’impresa: “fu intrapresa la fabbrica (...) per il comodo di farvi contumacia di quarantena le genti qualunque siensi sospette di mal contagioso, che qui giungono provenienti da lontani paesi” (5).

Gaspare Palermo, invece, riferisce sull’altro indispensabile impiego del Lazzaretto: esso infatti era destinato anche “alla ventilazione e sciorinamento delle merci suscettibili d’infezione, che vengono da luoghi di remoto sospetto di contagio”.

In particolare, in ogni regione soggetta a rapida diffusione dell’epidemia, anche tutta la posta veniva disinfettata attentamente poiché, malgrado opinioni discordanti, la carta già sin dalla fine del ‘400 era stata classificata come sostanza suscettibile di contagio (6).

Per disinfettare le lettere, in particolare, venivano utilizzati diversi sistemi quali: l’uso di agenti chimici o fisici come il calore (compreso quello solare), il ricorso a profumi (più o meno forti e in diverse concentrazioni e dosi in base alle zone di provenienza della posta), le spruzzature di aceto.

Altri mezzi, più o meno discutibili di disinfezione, erano la fumigazione e l’immersione delle lettere in acqua di mare. Solo in epoca recente si utilizzò il cloro che aveva il vantaggio di evitare le bruciature da calore e lo sbiadimento dei testi causato dall’uso dell’aceto.

Come riferisce il De Zanche, il problema della posta infetta o potenzialmente tale, veniva esteso anche agli imballaggi (stoffa, spaghi, etc.). Pertanto alcuni di essi vennero vietati ed altri furono autorizzati solo a patto che il formato ne consentisse la disinfezione.
Per le lettere che viaggiavano via mare, queste operazioni venivano effettuate negli uffici di Sanità delle aree portuali dotate di lazzaretto. Per la posta che giungeva per via di terra, l’eventuale disinfezione veniva effettuata generalmente ai posti di frontiera.

Gli stati italiani furono i primi a disinfettare la posta, probabilmente già a cavallo tra il ‘400 e il ‘500 e quasi certamente già a partire dalla seconda metà del ‘500 esisteva la cosiddetta pratica di spurgo delle lettere.
Per tali attività anche all’Acquasanta vennero predisposti diversi magazzini per la quarantena dei prodotti e - a garanzia del loro corretto mantenimento in stato di isolamento - era nominato un Capitano del Lazzaretto che vigilava coadiuvato da appositi guardiani. Inoltre, con cadenza giornaliera, un incaricato della Suprema Commissione di Salute effettuava il controllo di tutte le operazioni.

La realizzazione del Lazzaretto, fortemente voluto “per ottenere quella sicurtà influente al ben vivere” è testimoniata - sempre secondo il Giliberto - da una delle tante iscrizioni poste all’interno dell’edificio e così riportata dallo stesso autore:

Nel 1771, sotto il governo del viceré Fogliari, per timore che la pestilenza di Malta invadesse la Sicilia, furono realizzati dei corpi accessori per l’ampliamento del Lazzaretto e fu aggiunta anche una nuova recinzione.

L’uso cimiteriale dell’area, invece, va fatta risalire all’emanazione di un bando del 1787 a firma del viceré Francesco D’Aquino principe di Caramanico che vietava la sepoltura dei morti nelle chiese di Palermo, imponendo a tale scopo l’uso di un cimitero pubblico.

Il Lazzaretto tornò allora ad essere indispensabile, tanto che durante l’epidemia di colera del 1833, divenuto luogo di isolamento anche per i cittadini stranieri di religione non cattolica, ospitò i cosiddetti “eterodossi”. Molti di questi, infatti, morivano durante il periodo di quarantena e si rendeva necessario procedere alle relative operazioni di seppellimento. Per tali motivi il restauro dell’edificio, affidato all’architetto Nicolo Puglia sotto la supervisione del Deputato di Salute Pubblica duca della Verdura (7), dovette prevedere anche l’ampliamento dell’annesso cimitero che fu definito, proprio per la peculiarità degli ospiti, “a-cattolico” o “inglese”.

Il viceré Leopoldo di Borbone, allora magistrato supremo di salute pubblica, comprese le nuove esigenze, diede ordine di predisporre un progetto di restauro con l’ampliamento delle mura di cinta sulla via Simone Gulì, dove venne aperta una nuova porta di accesso.

Ecco come descrive Giliberto la nuova porta d’ingresso: “Quest’ultima è la principale e mostrasi con nobile aspetto lungo la strada pubblica dell’Acqua-Santa, ad opera d’intaglio di grossi macigni, che sostengono un cornicione a risalto, in cui si osserva di rilievo scolpito a stucco il genio della salute, che all’emblema delle Reali insegne fa colonna, fiancheggiato al di sotto nell’opposto lato dell’Aquila, e del Cornucopie”.

Accanto al portale si trovano due piccoli edifici destinati al corpo di guardia; immediatamente al di là dell’ingresso vi era il cimitero degli eterodossi “piantato a mirti e cipressi che lo ripartiscono in molti ben ordinati vialetti”. Questi ultimi conducevano al centro, dove sorgeva un monumento sepolcrale e, dietro ad esso, una fontanella. Una piccola scala immetteva in un ciborio dov’era collocato il simulacro in rilievo di Maria SS. Immacolata protettrice dei naviganti eseguito, probabilmente, da Salvatore Bagnasco. Ancora a sinistra dell’ingresso c’era un vestibolo a due colonne doriche e travatura rettilinea.

Oltre all’abitazione del cappellano e del medico, poco innanzi, si trovava l’accesso vero e proprio al Lazzaretto introdotto da un semplice portale che conduceva ad uno spiazzo con una fonte. Su di esso convergeva uno “sbarcatoio”, dotato di camminamento esterno per far sì che gli impiegati doganali non entrassero direttamente in contatto con persone e cose destinate all’isolamento.

Il Giliberto descrive anche la presenza di molti e vari magazzini, di una banchina sul mare, di una cappella per la celebrazione della messa, di un corpo di guardia e di un ufficio di cancelleria. Egli conclude: “un parlatoio a doppie ferrate, chiude il cortile, in fronte del quale una lapide è destinata a tramandare alla posterità la memoria di restaurazione di questo edificio, con la seguente iscrizione latina del Bar. Vincenzo Mortillaro”.

Quattro anni dopo il completamento delle opere di restauro, l’epidemia di colera aveva saturato a tal punto gli altri cimiteri cittadini che il Sovrintendente di Salute pubblica duca di Caccamo ordinò che le salme degli eterodossi deceduti da almeno dieci anni fossero spostate dal cimitero dei Rotoli a quello attiguo al Lazzaretto.

Quest’ultimo è stato utilizzato, probabilmente, fino al 1860.

Anni dopo, nel 1885, l’intera struttura del Lazzaretto e parte del cimitero furono convertiti nello stabilimento per la produzione industriale della Regia Manifattura Tabacchi, attività cessata - com’è noto - ai nostri giorni. La residua parte è stata inglobata negli anni all’interno dell’area dei Cantieri Navali.

Tra il 1920 e il 1960 la struttura passò dalla famiglia Whitaker, che nel frattempo ne aveva acquisito la proprietà, al Comune di Palermo.

Numerose sono state nel corso degli anni le richieste per effettuare interventi di restauro. Istanze sono giunte anche da parte delle rappresentanze diplomatiche di Paesi quali Gran Bretagna, Stati Uniti, Svezia, Norvegia, Danimarca, Olanda, Germania, che già sin dal 1957 hanno sperato nel restauro conservativo del cimitero a-cattolico.

Solamente nel 1999, dopo un lungo periodo di oblio, gli edifici e il sepolcreto sono stati riconosciuti beni di interesse storico e artistico.


Note
1) Filippo Meli, Degli Architetti del Senato di Palermo, Palermo 1938
2) Salvatore Pedone, L’antico Arsenale di Palermo - in Kalòs, anno XII n°4 ottobre/dicembre 2000, Palermo
3) Giuseppe Giliberto, Sul Lazzaretto di Palermo, Palermo 1840
4) Antonino Mongilore, Memorie del feudo di Barca, Biblioteca Comunale Palermo, QqE12
5) Gioacchino Di Marzo, Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX - voi. IV, Palermo 1873
6) Luciano De Zanche, Storia della disinfezione postale in Europa e nell’area mediterranea, Padova 1997
7) Gli altri componenti del “Magistrato supremo dì Salute Pubblica” elencati nelle memorie del Giliberto, erano in quegli anni : il duca di Caccamo (presidente), il marchese Merlo (segretario generale), il marchese Ugo, il principe di Niscemi, il principe di Valguarnera, Pietro Diletti (questi ultimi in qualità di deputati).



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