L'immensa tela 6 x 6,40 m di ignoto: Il Trionfo della
Morte. Palazzo Abatellis. Palermo
In tutti i tempi l’uomo è rimasto smarrito
davanti al mistero della morte, dibattuto tra il credere o no in
qualcosa che la ragione umana non riesce a comprendere. La vita
per il genere umano finisce con il disfacimento del corpo, da
tempi immemorabili l’uomo si ritrae terrorizzato dalla vista di
un cadavere che percepisce come estraneo e ancor di più sfugge
alla decomposizione che restituisce l’uomo trasformato al
processo rigenerativo della vita.
La morte, conosciuta solo da
chi l’ha incontrata, è un fatto culturale che ha fatto
riflettere tutti sulla sua origine, sulle sue cause e sul suo
significato producendo dei comportamenti collettivi
ritualizzati. Fin dagli albori dell’umanità la morte è stata
onnipresente ed accompagnata con rituali articolati e ricchi di
simboli. I più autorevoli studi antropologici hanno accertato
che il decesso per le comunità primitive non aveva mai origine
da cause naturali ma era la conseguenza di un atto violento,
aggressione omicida, voluta da persona nemica, premeditata ed
avvenuta per mezzo di pratiche magiche. Il momento della maggior
angoscia era legato alla fase della fetida decomposizione,
durante la putrefazione gli uomini primitivi cercavano di
placare il morto con dei rituali che duravano fino alla completa disincarnazione dello scheletro.
Questi riti permettevano al
gruppo di socializzare con la morte e finalmente quando le ossa
diventavano imbiancate e purificate per i nostri progenitori,
l’ira e il furore del morto erano placate e il defunto assumeva
un aspetto venerabile e solenne e la morte diveniva più
accettabile. A questo punto avveniva la "seconda sepoltura" il
morto, liberato dai suoi diritti e doveri verso il gruppo "rituale di scioglimento", veniva reintegrato come antenato e
nasceva così la sua nuova vita regolata nell’aldilà.
Particolare della tomba di Ardizzone Onofrio
morto
nel 1791 dello scultore Ignazio Marabitti
Questi riti
funebri di trapasso, purificazione e difesa si trovavano in
tutte le società primitive e fino a poco tempo fa si
riscontravano frammenti e residui di questi atteggiamenti nelle
usanze delle popolazioni contadine del nostro paese. Gli antichi
rituali funebri non servivano ad estraniarsi dalla realtà ma
erano solo un processo sociale che scioglieva e trasformava i
vincoli di tenerezza e amore che erano intercorsi tra gli
antenati e i vivi.
Nasceva così nell’uomo il desiderio di
poter avere un sepolcro per il proprio corpo, ed è proprio qui
che diventava eterno il suo ricordo. In altri tempi, la peggiore
sorte, per un uomo, era rimanere insepolto. Anche gli schiavi,
dentro un sepolcro, acquistavano finalmente la loro libertà.
Nell’antichità classica le dimore dei defunti erano
tenute rigorosamente lontano da quelle dei viventi che
mantenevano rapporti e scambi simbolici con gli antenati,
non mancavano le offerte, i lamenti e una degna sepoltura.
Se fossero mancate queste cose il caro defunto diventava un
pericolo, capace di tornare funestamente a contagiare i
vivi.
Trionfo della morte. Palazzo Abatellis, Palermo
I Romani consideravano i sepolcri sacri ed erano protetti da
leggi molto severe, i cristiani in seguito acquisivano questa
sacralità con l’uso di benedire i cimiteri e di compiere riti
religiosi. Questi, fino alla fine del II secolo, venivano
costruiti vicino alle grandi vie, o nelle proprietà dei privati.
Dall’inizio del III secolo per l’esigenza dei cristiani di
costruire dei sepolcri propri, sorgevano i cimiteri "
sotterranei " chiamati Catacombe. Per evitare la profanazione
dei morti e per meglio curarne il culto nasceva l’esigenza di
realizzare i cimiteri all’interno della città. I morti (anime
purganti) sepolti nelle chiese ( ad sanctos, apud ecclesiam,
)trovavano sollievo con le preghiere e le opere di carità.
L’esistenza intrecciata di vita e morte è presente in maniera
forte nell’antico mondo classico dove costituiscono (scrive il
Villabianca storico palermitano) un tutt’uno. La tomba non è
soltanto il luogo in cui si conserva il defunto, il modo e la
forma con cui viene realizzata, caratterizzava una precisa
cultura della morte, che variava da luogo a luogo. Insieme,
architettura, pittura e scultura facevano a gara per
rappresentare ciò.
Anche Palermo era al centro di questa
cultura, in tempi passati la popolazione più facoltosa
spendeva ingenti somme di denaro per l’ultima dimora.
Le chiese venivano così trasformate in depositi di ossa che non
ne impedivano la pubblica frequentazione, tutto il terreno
consacrato della chiesa designava il cimitero, vocabolo di
origine greca, " cemeterium ", fino al seicento il cimitero e la
morte apparterranno alla quotidianità . Nell’ Europa medievale i
morti riposavano dentro la città e difendere la propria città
era difendere i propri morti ma in seguito alla Controriforma
nel XVII secolo comincerà a manifestarsi una diffusa
insofferenza che porterà nel XVIII secolo a scindere il legame
fisico tra chiesa e cimitero negando così la confidenza con la
morte e i defunti. Con l’ascesa del ceto borghese il rapporto
tra morti e viventi si trasforma in indifferenza , dopo secoli
di ininterrotta familiarità la vista dei cadaveri e dei poveri
resti mortali torna a suscitare un senso di angoscia e sgomento
e le chiese rigurgitanti di cadaveri suscitano ripugnanza. Ad un
tratto la salute pubblica appare minacciata dai cadaveri in
putrefazione e si ritiene che sono i morti a contaminare i
viventi, bisogna quindi sbarazzarsi al più presto di questo
orrore, distruggere i cimiteri intra muros affinché neppure il
ricordo rimanga di quei luoghi.
Un decreto regio del 1710
ordinava di non effettuare più il seppellimento dei cadaveri
all’interno delle chiese ma di rispettare la distanza di un
miglio dal centro abitato per meglio garantire la salute
pubblica.
Trionfo della morte,
particolare. Palazzo Abatellis, Palermo.
La definitiva estradizione dei morti dalla città
verrà ratificata ai primi dell’ottocento dalla riforma
napoleonica. Il morto diventa cadavere e il rapporto tra viventi
e defunti perde i suoi legami, la concezione magico-religiosa
cede il posto al concetto di morte naturale consentendo così
l’utilizzo del cadavere a scopi scientifici trattandolo come
cosa, la morte a questo punto cessa di essere condivisa.
La
società che ha raggiunto l’opulenza rimuove tutto ciò che può
richiamare la morte e la sua desacralizzazione porta la desocializzazione, le manifestazioni pubbliche di lutto
diminuiscono e tocca un numero sempre più limitato di persone,
congiunti ed amici.
La soppressione del lutto e dei gesti
moltiplica le depressioni nervose in coloro che sono colpiti da
un grave lutto reprimendo ogni possibilità di una espressione
liberatrice della sofferenza. Le veglie collettive e le
lamentazioni pubbliche sono scomparse e dimenticate, il dolore è
interiorizzato, la malattia riguarda strettamente la famiglia e
il pianto liberatorio diventa atto vergognoso, la saggezza che
considerava il morire un evento naturale della vita si è
smarrita, il ripudio della morte sostituisce il culto dei morti.
La morte, la sofferenza, il dolore non vengono percepiti come
spinte più forti alla vita come base della solidarietà umana
poiché l’individuo è costretto a rimuovere il sentimento della
morte. Ormai apparteniamo a una civiltà sprovveduta di fronte
alla realtà del morire. L’individualismo più spinto rende questa
esperienza esclusivamente interiore e tale da lasciare l’uomo
interamente disorientato e indifeso.