La scena è buia. Un canto
struggente si leva dall’oscurità. Sulla facciata del Palazzo Reale sono
proiettati i titoli di testa dello spettacolo.
Alla musica si sovrappone
la voce fuori campo del Narratore che presenta la Palermo del 1624, vivace
e cosmopolita, nell’attesa dell’arrivo del pittore Anton Van Dyck,
incaricato di ritrarre il viceré Emanuele Filiberto.
Una teoria di grandi vele,
su cui si sviluppa un suggestivo gioco di luci, simboleggia la nave su cui
sta viaggiando Van Dyck, al termine del lungo percorso che da Genova lo
porta a Palermo.
Come se annotasse sul
proprio taccuino gli appunti di viaggio, il pittore fiammingo si presenta
al pubblico e manifesta le proprie aspettative, la voglia prorompente di
ascoltare voci nuove, vedere e sentire colori e odori nuovi; il bisogno
d’asciugare al sole di Sicilia l’umido della sua infanzia.
La musica diventa
incalzante e ritmata: si popola di voci e grida. Appare Van Dyck, con
indosso gli abiti da viaggio. Alle sue spalle, il porto e una veduta della
città.
Davanti ai suoi occhi si
rivela la bellezza di Palermo, con le sue grandi direttrici che
l’attraversano da nord a sud, da est a ovest. Van Dyck già vede la salita
del Cassaro, immagina il Teatro del Sole, la Cattedrale, il Palazzo Reale.
Guarda Palermo come se
dovesse farle un ritratto, con tutta la sensibilità e l’innocenza di un
artista. Van Dyck scompare dietro la torre del Palazzo del Viceré e
riappare in mezzo ai vicoli della Kalsa. Indossa abiti diversi, che
indicano un passaggio di tempo. Anche la musica ha cambiato registro:
adesso è più rarefatta, come sospesa in una dimensione magica, vagamente
ipnotica.
Davanti agli occhi del
pittore si rivela l’operosità della città felice. Uomini che lavorano,
donne che lavano i panni alla fontana, bambini che corrono e giocano,
saltimbanchi che eseguono acrobazie in strada.
Rapito da un sincero
entusiasmo, Van Dyck annota tutto sul suo taccuino e gli schizzi sono
proiettati sulla facciata del Palazzo Reale.
Al termine della giornata,
il tema musicale si dissolve e Van Dyck esce di scena.
Le luci si abbassano fino a
spegnersi. La notte scende sulla città. In sottofondo, lenti rintocchi di
campane. Fuori campo, la voce del Narratore annuncia l’arrivo di una notte
inquieta, presagio di morte.
Passa la ronda. Subito
dopo, un drappello di ufficiali annuncia l’arrivo del viceré. Emanuele
Filiberto di Savoia è stanco e affaticato, con la mente affollata di cupi
pensieri. Le notizie che riguardano il dilagare della peste gli giungono
ormai da ogni parte della città.
Emanuele Filiberto beve
alla fontana e riflette sul senso dell’esistenza, sull’impotenza umana di
fronte alla morte castigo di Dio. Come vorrebbe, il sovrano, bere il morbo
come si beve un bicchiere d’acqua, ingoiarlo e farlo sparire per sempre
nelle sue viscere! Non gl’importa di morire, solo vorrebbe trafiggere il
contagio e salvare Palermo. Ma non può. L’indomani, 24 giugno 1624,
dichiarerà infetta la città.
Il viceré sale lentamente
le scale del Palazzo e si ritira nei propri appartamenti. In sottofondo,
la voce del Narratore annuncia l’arrivo di un mattino livido, segno di un
futuro senza respiro.
La scena s’illumina
completamente e appare Palermo, di un bianco spettrale. Sale un vento
soffocante di polvere e sabbia. Gruppi di persone vagano per la città, i
monatti segnano le case, un carretto passa con un carico di cadaveri.
In mezzo a loro, appare Van
Dyck. Cammina verso il Palazzo del Viceré, urtando i malati e i morti. Una
luce illumina con delicatezza il frontale dell’edificio in corrispondenza
della sala del trono.
Van Dyck sale le scale,
mentre il viceré, sempre più affaticato, indossa l’armatura e si prepara a
posare per il maestro fiammingo. Gradualmente si spengono le luci sulla
città e s’illumina sempre più nitidamente l’interno del Palazzo, rivelando
la magnificenza degli arredi e dei decori.
Van Dyck lavora dietro ad
una grande tela; di fronte a lui, immobile sul trono, il viceré. I due
personaggi dialogano e riflettono sul senso della sciagura, sul destino
degli uomini, sul bisogno di credere nel miracolo, sulla necessità di
pregare. Il viceré invoca l’aiuto della Vergine Maria; la supplica di
guidare la mano e le azioni di Santa Rosalia, le cui reliquie sono state
da poco ritrovate sul Monte Pellegrino e sembrano essere miracolose.
Dall’esterno del palazzo si
leva il canto dell’Ave Maria. Lentamente, le luci nella sala del trono si
abbassano e s’illumina il retro della città. Tra fumi vorticosi,
attraversati da bagliori di luce, i palermitani muoiono.
Emanuele Filiberto sente a
poco a poco mancare l’aria. Vorrebbe lavarsi i peccati e sciogliersi nella
pioggia battente del Nord. Non riesce più a stare in posa: deve chiudere
gli occhi, alzarsi, togliersi l’armatura. Con fatica si solleva dal trono,
con un gesto disperato si slaccia l’armatura che cade pesantemente a
terra. Infine crolla, mentre Van Dick termina il quadro che renderà
immortale la sua figura.
Lentamente il dipinto
ruota, rivelando il celebre ritratto di Emanuele Filiberto (oggi
conservato a Londra, ndr). Tutte le luci in scena si spengono e rimane
illuminato solo il quadro di Van Dyck.
Mentre il pittore scende le
scale del Palazzo, il Narratore annuncia la morte del viceré e lo
smarrimento della città rimasta senza guida.
«Ci vorrebbe un miracolo»,
esclama Van Dyck al centro della scena. «Bisognerebbe che qualcuno, dal
cielo, guardasse in terra e vedesse i cumuli di morte e miseria che hanno
sepolto Palermo». Ricorda che il viceré è morto pregando e invoca
anch’egli la Vergine Maria. La supplica di concedere a Santa Rosalia il
permesso di scendere in mezzo a loro. «Sorella Rosalia», implora, «salvaci
se puoi».
Il coro intona la canzone
di Santa Rosalia, mentre dall’alto del Palazzo Reale s’accende una
striscia di fuoco che attraversa la piazza e raggiunge il Carro trionfale,
ora finalmente visibile lungo il Cassaro. Un marinaio raccoglie la fiamma
e accende le candele attorno alla statua della Santa. Ora il Carro,
trasportato da 60 marinai vestiti di bianco, si avvia verso la cattedrale.
Il Carro trionfale arriva
nei pressi della cattedrale e si posiziona al centro della cancellata, di
fronte a quello che rappresenta un lazzaretto. Il cardinale Giannettino
Doria sta pregando nella cappella posta all’estrema sinistra della scena.
È inginocchiato di fronte al crocefisso, il capo chino sulle mani giunte.
Alcuni gradini lo dividono dal lazzaretto, dove si consuma la vita pietosa
di tutti i giorni. In sottofondo, le litanie degli appestati e le voci dei
medici che prescrivono inutili rimedi.
Il cardinale è tormentato.
Invoca una giustizia divina che sembra aver abbandonato la città. Dopo il
ritrovamento delle reliquie di Santa Rosalia, si moltiplicano le voci di
miracolose guarigioni. La folla crede in lei ed è determinata a portarne
le spoglie in processione; i medici, invece, tacciono, convinti che il
corteo diffonderebbe il contagio.
Che fare? Credere o non
credere? Agire? Aspettare?
Su questi dubbi strazianti,
il cardinale Doria si rivolge direttamente a Dio e cerca nel sacramento
dell’Eucaristia, nel corpo e nel sangue di Cristo, la forza che gli manca
per affrontare il male.
Infine, si solleva
dall’inginocchiatoio. Con un gesto deciso si scrolla dalle spalle il
mantello color porpora e scende nel lazzaretto, in mezzo agli appestati.
I malati gli vanno
incontro, pieni di speranza. La musica si fa incalzante. Il cardinale
sussulta. Ancora tormentato dai dubbi, risale sull’inginocchiatoio e si
rivolge direttamente alla città, maledicendo un destino ingiusto e
chiedendo l’aiuto di tutti i palermitani.
Invoca nuovamente il Padre
celeste e il coro risponde intonando il canto del Pater Noster. Il
cardinale Doria prega e il pubblico lo segue. Tutta la piazza della
Cattedrale recita il Padre Nostro, facendo da sottofondo alla voce del
solista.
Il cardinale Giannettino
Doria scende dal pulpito e percorre di slancio il primo corridoio del
lazzaretto. Si ferma di fronte al Carro e si rivolge direttamente a Santa
Rosalia, a nome di tutti i palermitani. A lei e alle altre patrone di
Palermo, chiede un segno, un cenno che indichi la via verso la vita.
La musica esplode in un
crescendo trionfale: quattro grandi nicchie nascoste nel Carro ruotano ai
piedi della Santa e svelano le figure di Ninfa, Cristina, Agata e Oliva,
le sante protettrici della città prima di Rosalia.
Adesso che dal cielo è
giunto il segnale che la città cercava, il cardinale offre a Rosalia e
alle sue compagne il proprio omaggio. Un dono che sia la massima
espressione del talento umano nel tentativo di rappresentare la potenza
divina, la dolcezza della Grazia. Lunghi teli bianchi si srotolano dalla
balconata superiore della cattedrale e scendono fino a terra. Sulla
candida parete dell’edificio, appare la Madonna del Rosario di Van Dyck.
Nuovamente la musica
esplode in un crescendo irresistibile.
Il cardinale si rivolge
adesso alla città e chiede a tutti i palermitani di esprimere un segno di
pace, di fratellanza, di solidarietà. Ordina che si cessi di piangere la
morte e si ricominci ad amare la vita. Una terza impennata musicale scuote
il pubblico, mentre centinaia di colombe bianche si alzano in volo dalle
mura del lazzaretto.
La musica trionfale
sostiene il cardinale, mentre annuncia la salvifica processione. Percorre
il secondo corridoio del lazzaretto ed esce dall’edificio. In sottofondo
giunge l’eco dei tamburi che annunciano la sfilata.
Il cardinale monta sul
baldacchino e si pone alla testa del corteo, davanti al Carro di Santa
Rosalia. La musica e il clamore della folla lo accompagnano verso i
Quattro Canti di piazza Vigliena.
Il corteo Al centro del
corteo, c’è un baldacchino di stoffa dov’è posto il trono del cardinale
Giannettino Doria, circondato da 64 figuranti. Di questi, 20 sono i
portatori del baldacchino, in costume barocco da valletto; 20 sono
alabardieri; 4 portano il trono cardinalizio; mentre 20 chierici in tunica
bianca recano turiboli d’incenso. Precedono il corteo 10 suonatori di
tamburo, anch’essi in costume d’epoca, che eseguono musiche tradizionali
del Festino.
Archi trionfali in legno
racchiudono l’ottagono dei Quattro Canti, mentre le quattro pareti
monumentali sono coperte da teli di tulle, che permettono sia di mostrare
le sculture in trasparenza, sia di diventare schermo per proiezioni e
giochi di luce. Il Carro trionfale si ferma al centro della piazza; e
mentre dai balconi cade una pioggia di petali di rosa, il Sindaco, come
tradizione, sale sul Carro e depone un mazzo di fiori ai piedi della
Santa, gridando: Viva Palermo, Viva Santa Rosalia.
Dai Quattro Canti, il
corteo e il Carro riprendono il loro percorso lungo il Cassaro, illuminato
da torce e padelle romane, e decorato da drappi rossi che scendono dai
balconi.
A Porta Felice, da un arco
scenografico in legno che chiude i due bastioni, una cantante lirica
esegue un’aria di ringraziamento, mentre un gruppo di sbandieratori
festeggia simbolicamente la cacciata della peste da Palermo. Il Carro
continua, poi, lungo il Foro Italico, dove si ferma definitivamente nei
pressi del palchetto della Musica.
Subito dopo, iniziano gli
sfavillanti giochi pirotecnici dal mare, che chiudono la festa.