Precisa in più che il gozzo o guru in palermitano, i guzzialori
coloro che praticano un tipo di pesca con questa barca.
In verità essa è un comunissimo "gozzo" che remando in coppia
riusciva a trainare la pesante rete, bilanciandosi a poppa con delle
zavorre, costituite da contenitori riempiti d’acqua.
Un gozzo più leggero era il "palangaro" che era
utilizzato per la pesca ai grossi pesci pelagici, una caratteristica di
questa imbarcazione era il prolungamento della ruota di prora che
sembrava un grosso uncino, con la punta aguzza.
"La varca di palangaru" è quasi il
doppio del gozzo comune e serve alla pesca del merluzzo (gadus merlucius),
a prua, attaccato alla ruota, si leva per di più di un metro e mezzo il
campiuni, che serve tanto per appoggio dei pescatori".
Dice ancora che c’era la "tartana", che
era una barca da carico e peschereccia ad un solo albero e per solcare
un vela latina, la varca di nassi di Palermo, barca a remi ed a vela,
porta come uso due nassi legate al campione di prua, la varca di sardi
citata nella pesca speciale delle sardelle e la "varca savurrera"
che si adopera oltre che per trasporto di zavorra a pesche diverse.
La lavorazione aveva inizio con la
scelta del legno, "ù conza varchi", nella sua mente aveva
già impresso il disegno del modello da realizzare esclusivamente a mano
secondo la sua tipologia e per ogni parte abitualmente utilizzava
diversi tipi di essenze: il gelso per l’ossatura, il nespolo per
la chiglia, il pino di Svezia o il polentino, un legno simile all’abete,
per il fasciame cioè la copertura della barca.
La struttura della barca, è basata su un sistema a
incroci, essa varia al diversificare delle zone in cui ha origine e
presenta diverse tipologie che vengono tramandate da generazioni a
generazioni, difatti ogni borgata palermitana conserva scrupolosamente
la propria scuola di consa-varchi.
Nel cantiere approntato spesso all’aperto o in
fabbricati di fortuna all’interno di un borgo marinaro o situato in
prossimità di un porticciolo per facilitare il "varo" dell’imbarcazione
ultimata, recano ancora i segni immutati del tempo con i pochi arnesi,
lavorano e sagomano il fasciame per realizzare: lo scheletro che è
formato dalla chiglia, sottochiglia, ruota di prora e contro ruota,
dritto di poppa dove a suo tempo verrà istallato il timone con la barra.
Completano lo scheletro, le ordinate a sorta di
costole posti trasversalmente alla chiglia da prora a poppa a breve
distanza fra loro e distanziate per grandezza per formare lo scafo.
A chiusura reticolata delle ordinate vengono poste
delle "serrette" che attraversano tutto lo scheletro in senso
orizzontale, dove a suo tempo vengono applicate le tavole per il
fasciame esterno e forma "il pagliolo" di tavole per il fondo amovibile.
Chiude il costolato delle ordinate, la bordatura che
forma l’orlo superiore dei fianchi della barca chiamata "falchetta".
Chiude lo scheletro da poppa a prua il fasciame
esterno applicato sempre in senso orizzontale, Nelle tavole esterne
verso il sottochiglia inizia "il torello" e il "controtorello" che
daranno all’imbarcazione, una particolare forma del fasciame atta a
formare la chiglia per "planare" l’acqua durante la navigazione,
tagliata dall’asse di prora.
Uno degli ultimi cantieri, che continua a vivere
ancora a Sferracavallo e che insiste nella tradizione tramandandola da
padre in figlio è quello del Sig. Stefano Costa con una attività
incessante da mezzo secolo trasmessa a suo figlio Nicola il quale
costruiscono barche alla vecchia maniera, il figlio adeguandosi alle
innovazione mettono in pratica la loro esperienza costruendo una barca
"A Lancitedda" in vetroresina con inserti di legno, per
soddisfare le esigenze dei nuovi predoni del mare.
A dare un’anima a questa nuova imbarcazione
interamente in legno ci pensavano i "pingisanti" che erano artigiani,
pittori che davano vitalità visiva e scaramantica alla barca.
Conviventi del faticoso lavoro che si svolgeva nel
mare, questo mezzo di attività o di trasporto, era arricchito e
nobilitato dall’arte popolare con motivi legati all’intelligenza
all’antico gesto dell’uomo.
Le maggiori espressioni di arte popolare in Sicilia
sono cariche di allegorie e messaggi simbolici, come nel "carretto" che
era figurato nelle sue parti con raffigurazioni e simboli, anche la
barca con motivi più semplici subisce questo simbolismo.
E’ un fatto immediato, oltre che un utile preambolo,
quello di legare a un unico fondo dell’arte popolare, due mondi tanto
diversi.
Colorate di giallo, rosso, blu erano dipinte secondo
tecniche utilizzate in pieno ottocento, a dare manifestazione a quest’
arte, provvedevano i "Pingisanti", il perché di questo appellativo era
dovuto al fatto che costoro disegnavano l’immagine del Santo protettore
nell’imbarcazione, custodi di una cultura popolare tramandata da secoli
e molto sentita dai pescatori committenti.
Fasce grandi e piccole s’alternano, seguendo il senso
della chiglia, con i vari motivi ornamentali e simbolici, è la parte più
preziosa della decorazione era anticamente quella superiore che
sovrastava la prua, sul rostro o " telamone" o "talamuni" come lo
chiamano i pescatori.
Questa fascia dell’orlo, per la sua varietà
cromatica, dava un tono di fasto a tutta l’imbarcazione e offriva
l’occasione di avere confronti con la decorazione dei carretti, nel
nostro tempo del tutto scomparsa.
Il simbolo è posto a protezione della vita
nell’attività quotidiana, quale schermo preposto alla difesa ma anche
quale emblema offerto alla speranza di prosperità.
Il rapporto tra l'uomo e il suo mezzo di
trasporto-strumento di lavoro, diviene così fortissimo, superando la
logica che spingerebbe a considerare il proprio carro, o la propria
barca, un semplice "mezzo", si dice generalmente che, nel relativo
repertorio figurativo, il sacro si mescola al profano.
Probabilmente invece, il simbolo apposto che
comunemente è considerato profano, assume qui un valore sacro.
Mentre nel carretto si rappresentano delle scene
tratte da un repertorio "storico", nella barca emerge, nella sua
purezza, la rappresentazione isolata del simbolo "arcaico".
L'oggetto simbolico è, infatti, rappresentato con
estrema chiarezza espressiva, nitido, su un fondo di colore bianco,
quasi a voler farsi notare dalle creature del mare, o per specchiarsi
bene sull'acqua, quando il mare è tranquillo.
Alla barca si da un nome, un nome femminile, e
quando si va in mare, ci si reca come con una compagna.
La sistemazione delle immagini è sia a prua sia a
poppa, ma, mentre a prua abbiamo una raffigurazione deputata a difendere
dalle insidie del mare a poppa generalmente si collocano simboli
augurali di buona pesca, il repertorio è codificato: si dipingono occhi,
sirene, cavallucci marini, angeli, fiori, spade, cuori o semplicemente
scritte augurali.
L'oculus -occhio sacro-, è preposto
all’individuazione di una rotta priva di pericoli, e mentre l'occhio
rappresenta la vigilanza, lo stare allerta, la doppia natura della
sirena, metà donna e metà pesce, o del cavallo marino, metà cavallo e
metà pesce ci conduce nel mondo del mito, e ci rappresenta, il
particolare rapporto del pescatore siciliano e palermitano in genere con
il suo mare, attingendo da certe credenze popolari.
"Sogliono fare dipingere sul campione di prua i santi
Cosimo e Damiano, protettori dei pescatori, su quello di poppa,
l’Arcangelo Michele sull’opera morta di prua, la leggendaria Sirena, le
cui forme in Sicilia offrono varietà ed anche differenze notevoli.
L’opera morta è tutta pitturata a lunghe striscie e
con vari ornati regolari e simmetrici, verso poppa, presso il timone,
armato della manovella (jaci), sull’orlo della murata, è una carrucola (curriuola)
per trarre dal mare dei pesci e nelle due murate, n.6 scalmi (scalmi)
armati di remi con i soliti zig-zag in rosso, dal terzo superiore in giù
verso la pala.
Quanto per adornamento, alla sua base, dalla parte
interna è dipinto secondo l’uso l’immagine di una santa o di un santo,
al campione di poppa, più basso e all’esterno,un ostensorio, in giro
sull’opera morta della barca sono pitturati festoni di fiori, frutta,
uccelli, a poppa ed a prua verso il tagliamare, angioletti".
In questo modo riferisce il Pitrè in merito alla
colorazione delle imbarcazioni palermitane che i pescatori del vicino
rione "San Pietro" solevano farsi improntare dai "pingisanti", questi
non tendono alla narrazione, ma qualcuno vuole ricordare sulla barca
l’ex voto dedicato alla Madonna o a uno dei Santi che si ritiene abbia
fatto il miracolo.
Anche i colori delle barche possiedono una loro
simbologia, essi sono nitidi e decisi: Il color rosso, con cui spesso si
usa dipingere la struttura dello scafo, è ricollegabile all’antica
usanza propiziatrice di quando si bagnava la chiglia con il sangue di un
animale sacrificato.
Il legno usato era il gelso, anch'esso simbolico
poiché produce un frutto che ha come caratteristica principale un succo
rosso intenso.
Tutto ciò non deve stupire se si considera che la
navigazione sull'acqua, si eleva a metafora della vita in molte antiche
culture e rende la barca simbolo essa stessa di un attraversamento, il
mezzo che riporta alla dimensione ultraterrena.
Come emblema di tutte le barche per quanto riguarda
la colorazione e il simbolismo comunemente si prende in esame la "Capaciota":
esternamente la barca aveva la carena impeciata e quindi nera, murata a
fasce di giallo, di verde, di bianco col trincarino blu oltremare; il
capo di banda (bordo superiore dello scafo) era blu, il supporto del
levatoio di poppa grigio, chiglia e timone bianchi sopra il
galleggiamento, grigio scuro sotto il galleggiamento.
Per quanto riguarda la colorazione interna: da prua
fino alla prima paratia grigio perla; fra le due paratie e i banchi,
grigio perla; dalla paratia poppiera fino a poppa rosso mattone; le
tavole del carabottino di prua e di quello di poppa erano calafatate e
se erano di legno pregiato non erano dipinte altrimenti erano grigie.
La coperta era rossa perché veniva dato il minio, un
composto di piombo, che serviva per proteggere il legname così come il
color ruggine verdastro del fondo della barca, cioè della parte immersa,
che veniva verniciato con vernici a base di ossido di rame per
proteggere il legname dall’attacco degli agenti marini.
Un cavalluccio marino o una sirena a colori vivaci e
occhi apotropaici neri con fondo bianco, esaltava la prua.
Nella barca questi piccoli misteri, insieme
all’anonimato dei pittori, accrescono l’interesse per queste variopinte
imbarcazioni che fanno spaziare la mente umana.
A Terrasini presso il museo di
Palazzo D’Aumale
esiste un’esposizione di modellini di barca in scala, realizzati con
rigore filologico da Filippo Castro, delle principali imbarcazioni a
propulsione remo-velica e poi a motore, in uso in Sicilia fino agli anni
Cinquanta.
Sono in vetrina modellini di barche siciliane
utilizzate per la pesca costiera del pesce azzurro e per la pesca a
strascico, principalmente si possono notare quelle palermitane come la
sardara, il buzzu, per la pesca con le nasse, a palangaro e talvolta
anche con reti a sacco.
Il gozzo, per la pesca generica costiera e notturna
con la fiocina, la lancia, per la pesca con il palangaro, lo schifazzo,
tipica imbarcazione da carico dell’Ottocento, modelli di
motopescherecci, usati per la pesca con reti da circuizione (cianciolo)
o con reti a strascico (paranza).
Sono inoltre esposti alcuni modelli di sardara, buzzu
e schifazzu realizzati a scafo aperto a scopo didattico per evidenziarne
la struttura e la tecnica costruttiva.
Inoltre l’esposizione è corredata da fotografie che
attestano i tipi e le tecniche costruttive ancora in uso e che affondano
le loro radici nella più remota antichità, pur adoperando, in alcuni
casi, tecniche, materiali e strumenti naturalmente più evoluti.
La relazione della presenza degli ultimi cantieri
navali operanti nella Sicilia occidentale, che lavorano con sistemi
tradizionali, dove attestano le molte tecniche, un articolato e cospicuo
filo che lega indissolubilmente "l’antico" con "il moderno", non
soltanto nella cantieristica, ma in generale in tutto ciò che riguarda
il mare.
Bibliografia:
Giuseppe Pitrè : - La famiglia, la casa, la vita
del popolo siciliano – ed. Il vespro rist.an. Pa 1978.
Francesco Riccobono - Simone Aiello:
"La pesca Artigianale a Palermo" – Ed.
associazione Posidonia – Palermo 2001.-