Alla sua stesura si procedeva nella scopata del marciapiede individuato,
si spargeva e si rimestava con una pala di tanto in tanto, alla sera si
ritirava e si poneva in sacchi di “juta”.
Dopo diversi giorni, dall’esposizione al sole, si raccoglieva e si salava
con sale fino per produrre un tipo “salato”, quella senza sale (“grevia”),
andava dopo l’asciugatura, riversata in commercio in sacchetti
caratteristici.
Il suo binomio è la “calia” da cui deriva il sostantivo “caliari”
abbrustolire, pratica ebrea di torrefare, ovvero da calore alcune pietanze
tipo il pane, in questo caso i ceci, molto cari ai francesi, acquistati
dai grossisti già secchi, al siminzaru non resta che tostarli.
Con il termine “calia” i palermitani quando debbono dare dell’ignorante ad
una persona lo abbreviano dicendoci “gnuranti comi à calia”.
Per preparare la sua tostatura è necessario che si fornisca di un grosso
pentolone “ù caliaturi” recipiente adatto per abbrustolire, dove vengono
inserite sabbia e sale, il fuoco procurerà a riscaldare questo miscuglio
e, quando è abbastanza caldo, vengono introdotti i ceci che il siminzaru
provvederà alla “caliatura” con continui rimescolamenti finché si creerà
una patina bianca sul cece e, tutto sarà pronto.
Nello stesso modo vengono preparate le fave abbrustolite “caliate”, alla
fine si aggiungeva dell’olio d’oliva per dagli lucentezza.
Questo genere di merce è stata eliminata per via della loro sodezza, in
quanto qualcuno si preoccupava per i denti, alcuni ancora li tengono solo
per il piacere di non fare perdere la tradizione.
Nei tempi antichi, il venditore di semi tostati gridava (abbanniava) “simienza”,
era l’unico passatempo che i ragazzi gradivano “all’opra” (il teatrino dei
pupi) tra una scena e l’altra, giravano con delle ceste di vimini divisa
in quattro scompartimenti e con tanto di manici, accompagnati da un
ragazzo, “u picciuteddu” che si destreggiava tra la folla per accontentare
gli avventori o per strada esaltavano la loro merce con una esuberante
illustrazione: “caura è, caura ci l’aiu”, i viandanti al suo richiamo si
sentivano attratti e facilmente acquistavano.
Nei giorni di festa o per il “festino di Santa Rosalia”, come riferisce il
Pitrè, si trasformava in una specie di modello di barca o vapore con tanto
di vele, bandierine e bubbole di carta colorata.
Cose di altri tempi che fanno piacere ricordare, ma la cosa che più
dispiace che questo vecchio passatempo sta per scomparire, ma no nei
sentimenti di noi palermitani.