Mappa Sito

Nuovo Sito clic qui

 

 

PANORMUS - FESTE POPOLARI

"U FISTINU" di Santa Rosalia

<Segue

La festa continua con la stessa devozione e uguale infervoramento anche nei nostri anni dichiaratamente più moderni.

Si sparano mortaretti sin dal primo mattino con le cosiddette alborate e le campane delle tante chiese del centro suonano a festa, i rintocchi della campana senatoriale del palazzo pretorio proclamano il nuovo giorno festivo.

 


Musicanti per le strade di Palermo 

Davanti alle varie edicole votive, dedicate a Santa Rosalia, disseminate nei numerosi vicoli del centro, si recitano testi e canti della tradizione popolare, un omaggio in onore della Santa:  “u triunfu“. Un amalgamino formato da contrabbasso, violino e mandolino accompagna i ponderati versi d’esaltazione.


Cantastorie

Anticamente questa particolare attività era praticata da una categoria di cantastorie e musicisti che venivano considerati veri e propri professionisti,. Essi erano per lo più  “Orbi“, cioè ciechi, nati o divenuti tali, che sin da fanciulli venivano istruiti a suonare e cantare, per potere poi, da adulti, svolgere un’attività che procurasse loro un sostentamento. Nel 1661 essi si costituirono  in congregazione, sotto il titolo dell’Immacolata Concezione. Ebbero un proprio statuto e la loro sede fu ospitata all’interno del convento gesuitico di Casa Professa. Nel loro repertorio poetico-musicale un posto di rilievo aveva il programma folklorico: in esso le memorie legate alla figura di Santa Rosalia, particolarmente quelle riferite alla sua vita terrena, erano molto richieste.

Tutti in strada, l’emozione collettiva investe la folla e la avvolge, la travolge e la pressa, la miriade di luminarie dai multicolori accende i giubilanti, il carro con il suo lento camminare prosegue in direzione della Marina, al grido corale di “Viva Palermo e Santa Rosalia “!

Il fronte del foro italico funge da proscenio, gremìto da tanta gente che canta, balla, mangia e ride e che viene senza accorgersi sospinta in quel luogo per assistere ai tradizionali “botti”, fantasmagorici fuochi d’artificio, che si concludono con la fatidica “masculiata” dopo la quale è facile udire tra la gente un mormorìo: “finieru i picciuli!”, per affermare che con quello spettacolo è finita la festa. I giochi pirotecnici impegnavano ogni anno in un’appassionante gara le ditte concorrenti Napoli e Calamìa. Una sfida all’ultimo colpo, è il caso di dire!

“U’ jocu di focu” i fuochi d’artificio, le magiche girandole, le improvvise fioriture di razzi, capaci di disegnare nel cielo nero della notte il volto di Rosalia, pensoso e afflitto nel vedere questa città travagliata.

Secoli fa il gran simbolo della festa erano proprio i fuochi di gioia, preparati su macchine alte e maestose che erano date alle fiamme; qui il fuoco svolgeva la sua azione purificatrice. Queste macchine infernali, apparati scenografici di grande effetto prospettico simulanti architetture irreali, furono utilizzate a Palermo intorno al 1650 ed erano state progettate da illustri architetti del Senato come Paolo Amato e Nicolò Palma.  Due forme classiche barocche, a piramide e a sviluppo orizzontale, vero trionfo dell’effimero che si perderà alla fine dell’ottocento. Il piano del Palazzo Reale era la sede abituale ove venivano date alle fiamme. In un secondo tempo, nel periodo borbonico, queste macchine diaboliche furono trasferite nello spazio antistante la passeggiata a mare, nella cinquecentesca Strada Colonna.

Diversi giorni prima si approntano al foro italico le numerose bancarelle, legate al più grossolano piacere del cibo e dei dolciumi in particolare. Anche in quest’espressione è presente la gioia che i palermitani manifestano per gratificare e onorare la Santuzza.


U siminzaru, venditore di semi di zucca, nocciole, mandorle, lupini... all'ombra della Santuzza !

Si consumano quintali di calia e simienza (ceci abbrustoliti e semi di zucca salati). Vediamo u’ siminzaro, cioè il rivenditore, la sua coloratissima bancarella apparata con le pitture dei carretti siciliani, bandierine tricolori, orifiamma, frange, cartoncini, festoni di carta d’ogni colore e stagnola luccicante, e ovunque, immancabilmente, troneggia l’effige della Santa nelle diverse immagini.


Bancone di sementi e frutta secca

Scompartite e ammucchiate sono esposte: ceci, simienza con le sue varianti, con sale e senza o poco, come la preferiscono i clienti, noccioline americane (arachidi), nocciole tostate, pistacchi, castagne secche (cruzzitieddi), carrube secche, favi atturrati (fave tostate) e i lupini tenuti a bagno nell’acqua salata in un recipiente di rame (quarara).

Immancabile il deschetto dello sfincionaro, che con abilità taglia grosse parti di sfincione (focaccia di pasta molliccia lievitata, con salsa di pomodoro e cipolla a fette, pan grattato, cacio cavallo a pezzettini e acciughe salate) dalla teglia appena riscaldata, aggiungendo olio e origano; lo sfincionello variante di dimensione più piccola è messo in vista a pile e venduto a chi ne fa richiesta.

Distesa calda sopra una lastra di marmo è preparata a vista la cubaita, dolce di zucchero durissimo, che una volta raffreddata si stacca e si taglia a porzioni con un grosso coltello.


U turrunaru

I "bubbuluna", la "inciminata", la "mandorlata" e la "nocciolata", sono messi in vendita dai “turrunara”. Il loro pezzo forte è il tradizionale “gelato di campagna”, sorta di torrone tenero, fatto di zucchero, pistacchi e coloranti, che ammicca dai ripiani delle bancarelle con i colori del tricolore italiano. Nonostante il passare degli anni, resiste alla tradizione e si presenta come un classico dell’antica arte pasticciera palermitana.


U gelatu ri campagna

Il panellaro, oltre a preparare i classici panini con le panelle (con o senza crocché), si è adattato al presente, offrendo gustose pagnottelle con salsiccia di maiale arrostita alla brace, mozzarella e pomodoro e cartocci con wurstel impiastricciati da salse, accompagnati da un buon fresco bicchiere di vino o birra.


U meusaru

Continuo e ritmato è il gesto di colui il quale vende il pane “ca’ meusa”. Dal recipiente di rame dove cuoce milza e polmone spezzettati in strutto (saimi) con la forchetta distende su una pagnotta appositamente preparata, le parti di milza coprendole di scannaruzzato e fettine di polmone, strizzando poi la pagnottella e accompagnandola con una manciata di formaggio (caciocavallo) o ricotta, la celebre “schetta” o “maritata”.

Altri gesti particolari compie il venditore di fichi d’india: estraendo prima i frutti dalla tinozza piena d’acqua fredda, ove vengono tenuti per neutralizzare le fastidiose spine, si accinge poi al taglio tradizionale: i due laterali del frutto sono tolti tagliandoli completamente; orizzontalmente poi s’incide la superficie e, tirando i due lembi si estrae la succulenta polpa dai diversi colori. Un piattino o due, o una dozzina, secondo la richiesta.

Al tavolo del “purparu” si consumano, abbondantemente innaffiate col limone, cozze bollite e scoppiate, ostriche e ricci, questi ultimi accompagnati dal pane. Sopra il bancone, una fila di piatti luccicanti aspetta di vedere sminuzzato un bel polpo dai grossi tentacoli, bollito all’interno di una gran pentola, una volta di creta.


A manciata ri babbaluci ! Un tocco di francesismo in piena borgata: lì si chiamano escargot !


U tianu ri babbaluci !

Per il palermitano doc, non è Festino se gli vengono a mancare i “babbaluci e u’ muluni”. Il naso all’insù verso il cielo, seduto comodamente su una seggiola, mentre guarda i botti, gusta quasi infastidito i babbaluci (lumache) e non ha importanza se sono conditi con aglio soffritto e spolverate con il prezzemolo o “a’ picchi pacchi” (salsetta di cipolla e pomodoro fresco e aromatizzare da pepe nero), l’importante che non manchino, comprati nella bancarella occasionale allestita per l’evento oppure portati da casa. La porzione tipo è il “piattino”: quanti di questi…. i palermitani possano far fuori nella notte del festino non si sa ma è sicuro che ne saranno consumate a tonnellate.


U mulunaru, vendita di angurie e meloni da mangiare sul posto 

La postazione di “muluna” (anguria) è riconoscibile dalla “montagna” d’angurie accatastate che, a richiesta del cliente, vengono palpate dalla parte del deretano per verificarne la maturazione. Poi vengono tagliate a grosse fette e di traverso in modo da ottenere parti allungate: Nel mangiarle la caratteristica è di: “manci, vivi e ti lavi a facci”, un unicum per questo tipo dì frutto.

In quest’elenco non possiamo trascurare il gelato, una delle principali glorie dolciarie del palermitano e della Sicilia, presente in una gran varietà di tipi e di sapori. Dal semplice cono gelato, ai gelati imbottiti, ai gelati a pezzo consumati nelle varie gelaterie disseminate al foro italico tra cui l’antica gelateria Ilardo. Fra le essenze più tipiche troviamo il gelato di gelsomino, di scorzonera e cannella, il gelato di fichi d’india e l’ottimo caffè con la panna.

I vari deschetti contribuiscono a dissetare la gente. Aranciate, coca cola, gassose hanno il compito di rinfrescare e accompagnare la digestione ma per il vino e la birra la cosa è diversa: alcuni, ritirati nelle vecchie bettole rievocano un’antica tradizione che è sfida di taverna, gioco riservato ai maschi, nato col vino, prosegue con la birra.


U toccu ri birra: a chi ne beve di più... 

Gioco perverso e cattivo, è il “tocco”, titillamento della voglia e della rabbia, perché se c’è un “patruni” che decide chi debba bere e quanto, c’è anche un “sotto” che ratifica la decisione: insomma, la disgrazia di chi perde è sfaccettata, si può bere troppo o non bere per nulla, e qui sta il bello, che conduce a facce sconsolate o visi troppo allegri.

U fistinu continua>>


Le foto e i testi di questo sito sono protetti da copyright 2002/2022 ©Carlo Di Franco e concessi in esclusiva a ©PalermoWeb.com
E' possibile, su richiesta, ottenere delle copie per usi commerciali: contattaci