Un vecchio proverbio
palermitano compiangeva coloro i quali il giorno di Pasqua non avrebbero
mangiato cassate.
Non mangiare cassate il
giorno di Pasqua e quasi un segno di poca devozione per i palermitani,
magari si può fare a meno di entrare in chiesa, ma la cassata deve onorare
il banchetto.
Questa torta, perpetuata
come singolarità araba, per via del suo nome all’utensile adoperato (quas’at
= casseruola) come riferimento alla sua forma circolare, viene preparata
con uno stampo in metallo a forma di cilindro con il bordo svasato, unendo
al pan di Spagna, ricotta, pasta reale, frutta candita e pezzi di
cioccolato.
La vera singolarità
consiste nella sua decorazione: frutta candita di cui si preferisce i
mandarini, pere, fichi, nastri di zuccata, ciliegie e arance che vengono
preparate con particolare maestria, fiorellini di ostia colorate e
confettini argentati e, finita con della glassa di zucchero e merlettature
di zucchero nei versanti.
Regale alla vista per le
sue cromie che risaltano in un bianco candore, per la forma perfetta che
richiama antiche simbologie magiche, il cerchio che fa pensare al sole
sorgente di vita e di rinnovamento, fantasia sacrale che giustifica il
ruolo di magnificatore di un’occasione, cerimonia, festa, per questo
motivo essa divenne il dolce della Pasqua.
Si contrappone, quella estiva
comunemente chiamata dai palermitani "Bbumma" o "Cassarulata" per il fatto
di essere preparata in una casseruola particolare, a forma di cupola:
gelato alla crema e panna, imbottito di pan di Spagna, pezzi di frutta
canditi e scaglie di cioccolato.
Palermitana d’origine si
deve alla presenza musulmana aver per caso realizzato questo mitico dolce:
si racconta in merito che secondo la tradizione un contadino arabo
amalgamando del formaggio fresco di pecora con della canna da zucchero e
l’accomodò all’interno di un pentolino, alla richiesta di qualcuno che
chiedeva cosa facesse rispose qas’at con il nome della scodella, l’astante
invece capì che si riferiva all’intingolo addolcito.
Successivamente i cuochi
dell’Emiro che dimorava alla Kalsa la rielaborarono aggiungendo
l’involucro di pasta di pane: quindi un cacio (formaggio) come la ricotta,
dolcificato e racchiuso in una fattispecie di pane prima di essere
infornato.
Dalla sensibilità dei
cuochi dei monasteri, a quelli delle case nobiliare, che ingentilirono la
pietanza appetitosa, il percorso fu breve e riuscì a farsi riconoscere,
tanto da essere inserita come "termine" cassata nel vocabolario
siciliano-latino scritto da Angelo Senisio, abate del monastero di San
Martino delle Scale nel XIV secolo.
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