Per i palermitani, il detto “è bonu com’u pani” (“buono come il
pane”) si riferisce a persona, consona ai principi morali e di cuore, sì
perché a Palermo il pane è veramente gustoso, sarà per la sua fragranza
che emana appena sfornato, sarà l’acqua, la verità è che invitante
veramente.
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Un
bel cesto di pane misto palermitano
Considerato l’alimento essenziale per antonomasia, è indispensabile
nell’accompagnare ogni pietanza, il pane palermitano per la sua bontà,
all’inverso si può mangiare anche senza il companatico “schitto”,
alcuni lo accoppiano finanche con la pasta.
Non deve mancare mai a tavola per i palermitani, deve essere caldo o di
giornata, qualora per motivi di sopraggiunta fame o di minore acquisto, si
rimedierà a farselo prestare dalla vicina di casa.
Lo impastano in retrobotteghe, lo manipolano in forme diverse, lo cospargono
di grani di sesamo (cimino) “giuggiulena”, al quale aggiunge un sottile
particolare aroma lo sfornano fumante e odoroso e lo spalmano, ancora caldo,
di un liquido che lo rende lucido come un mobile d’ebano verniciato.
In un secondo tempo lo dispiegano negli scaffali a canestro dietro il
bancone di vendita, tipo per tipo: mafalde, torcigliati, toscani, spagnoli,
signorine, capricciosi, millefoglie, ghiribizzi, filoni, filoncini,
sfilatini, pagnotte, pagnottelle, rosette, panciotte…
Più di una, le sfornate al giorno, il palermitano disdegna il pane freddo e
raffermo, quello che resta viene conservato per ricavarne “muddica” per
impanare la carne e le verdure da friggere o da arrostire.
Il pangrattato è adoperato come intingolo per svariate pietanze: riempire
le sarde a beccafico o i rollò di carne, di pesce o di maiale, tostato si
sparge sulla pasta e sullo sfincione, era detto il “cacio dei poveri”.
L’umile pane indurito era l’unico ingrediente di cui si componeva
la famosa zuppa di pane cotto, detta anche “minestra dei poveri”, si
rammolliva nelle minestre o nel brodo delle verdure.
Buttare il
pane è come un insulto alla fame e alla sfortuna e, quando non si può fare
a meno, prima di gettarlo via, si vedrà baciarlo con rispettoso omaggio.
L’astante che presenzierà al fatto non avrà da
meravigliarsi nell’osservare l’atteggiamento, in modo inconsapevole, si
rievoca la liturgia dell’ultima cena, al pane simbolo della natura divina.
Capovolgere il pane a tavola è come volgere le spalle al Signore per la
“grazia di Diu” donataci o infilzarlo con il coltello, bisogna spezzarlo
preferibilmente con le mani o tagliarlo a fette è reverenza alla
provvidenza.
L’attuale atavica venerazione è rispetto per questo cibo, nei siciliani
è possedimento d’antica fame di lunghe e dolorose carestie, che hanno
insegnato a far tesoro per tutto quello che la terra dona attraverso il
risultato del proprio lavoro.
I contadini tradizionalmente durante la raccolta del grano all’ora
di pranzo si cibavano di grano lessato condito con olio e sale, un
antesignano della “cuccìa” inventata a Palermo, il grano cotto combinato
alla crema di ricotta, ingentilito diviene un dolce, che rievoca una delle
tante carestie che ha vissuto il popolo palermitano, stremati dalla fame,
per intercessione a Santa Lucia, si vide arrivare in porto una nave carica
di frumento che utilizzarono all’istante appena cotto, ogni anno si
rievoca la consuetudine astenendosi dal mangiare pane e pasta.
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Nota: il
pane nelle immagini è stato gentilmente messo a disposizione dal Panificio
Lo Piccolo di Via Cuba a Palermo. Lo Piccolo è nome legato ad antiche
tradizioni di panificatori palermitani.
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