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PANORMUS - GASTRONOMIA PALERMITANA

I tipici "pani" palermitani

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Il Pitrè annovera diverse morfologiche fogge dove la modellazione del pane aggiunge alla materia alimentare una varietà d’immagini che richiama oltre l’effetto visivo quello gustativo per la quale tuttora si continua a produrre.


La modellazione del pane avviene rigorosamente a mano l’abilità e l’agilità con cui il panificatore adoperano le mani si trasforma in arte, la meccanizzazione è arrivata solo in tempi moderni nella preparazione dell’impasto, i casi dove si usano degli stampi sono particolari e si adoperano per i pani votivi.

Le più antiche configurazioni di pane palermitano sono rappresentate dal “cimi-tortu” (fiume tortuoso), nome alterato di pasta intrecciata, margine contorto, normalmente rinomato tuttora come “torcigliato”, filone di pasta intrecciata la cui faccia anteriore possiede una serie d’escrescenze ricavate dal taglio della lametta per rendere il pane più cotto, era considerato pane forte per soavità ed era infornato per cottura diretta nel piano del forno, nelle teglie si sottoponeva a cottura il pane a “birra” dalla sagoma meno angolosa.

La “varbuzza”(barbetta), la palma oggigiorno si può riconoscere nella “mafalda” a forma di serpentina che rannicchia l’impasto uno accanto all’altro racchiusa da un opercolo cilindrico di impastatura per non fare staccare la forma.

“U pistuluni” (filone) pane dalla foggia allungata a bastone dalla pezzatura di mezzo chilo più economico, pane di cassetta, che era venduto a peso e quando il peso della pezzatura non corrispondeva si aggiungeva un pezzo a parte a “iunta”.

Più piccolo e corto del precedente a bastone era la “pistuledda”, mentre “u rugnuneddu” imitava la forma del rognone bovino.

La “scaletta” era considerato pane forte, in quanto una volta predisposta la forma sinuosa e mozzate le punte, per rendolo più cotto, si tagliava con la lametta la bordatura superiore.  

Per la preparazione dei pani, il lievito rappresenta uno dei quattro elementi della panificazione, occorre distinguere quello naturale o pasta acida “u criscienti”, conseguito con l’impasto di farina senza sale e posto a riposo per divenire acido e, quello ottenuto dalla lavorazione del luppolo da cui si estrae il lievito di birra, la quale consente una più rapida lievitazione ed avere un prodotto sempre pronto.

Prima della meccanizzazione s’impastava a mano e come unità di misura, il palmo della mano è quello che rappresenta i cento grammi che serviranno a realizzare la pezzatura di un quarto di chilo (250 gr.), si distende l’impasto in sagoma cilindrica che rannicchiandola a forma di serpentina si tramuterà in mafalda.

In un contenitore di legno saranno stesi i pani dove riposeranno in un luogo caldo (letto) a gonfiare, avvenuto ciò, con la paletta che sarà spolverata con della farina per non farli attaccare si provvederà ad infornarli a 250 gradi, prima di fare questo con un pennello si spenderà dell’acqua semplice e una manciata di cimino (sesamo).

Quest’ultima è una consuetudine introdotta dagli arabi, che la importarono dall’india dove la pianta è originaria, con il nome di giugelli-giugil successivamente giuggiulena, i semi utilizzati solo in Sicilia per ricoprire alcune qualità di pane e biscotti e a confezionare un tipico torrone detto “cubbaita”.

E’ una gioia sfornarlo dopo diversi minuti, ancora una volta, si conclude un processo affascinante e semplice nello stesso tempo per il buon pane quotidiano che vale la pena gustare ancora caldo ma non troppo.

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