Dietro al deschetto un uomo in grembiule si muove ad intervalli e con gesti
armonici, armato di una lunga forchetta a soli due denti, tira fuori da un
pentolone d’alluminio, anch’esso dalla forma particolare e posto sul
fornello in posizione inclinata,
delle
sottili fette di carne che altro non è che milza (interiora di vitello) e
le distende al di sopra di un panino tagliato a metà, su di queste pone
altre fette di tessuto polmonare (polmone di vitello) che in precedenza ha
soffritto nella "saimi" (strutto), e infine completa il ripieno
della focaccia con lo "scannaruzzato", cioè cartilagini tratte
dalla gola dei vitelli.
Poi, con rapida e studiata mossa della mano porta
l’altra metà del panino sulla parte condita, le unisce schiacciandole
affinché ne venga fuori il brodo superfluo e lo porge all’avventore che,
come ultima operazione, gli spreme il succo di un limone.
Una attenta
osservazione della preparazione e i consigli del nostro carnezziere di
fiducia, ci permetteranno di cimentarci, a casa, nella preparazione della
“focaccia”.
A monte di questa pietanza, servita tra le due metà di una soffice e calda
pagnottella ricoperta di "giuggiulena" (semi di sesamo), a cui in
precedenza è stata tolta la mollica, esiste una lunga storia che ebbe
origine alcuni secoli fa in questa città.
La
comunità ebraica,
presente Palermo fino al 1492, viveva all’interno di un proprio ghetto, ed
era dedita a varie attività; alcuni erano abili nell’arte della
macellazione ed esercitavano nei vari mattatoi della città.
L’allora macello cittadino delle carni era ubicato, e lì rimase sino al
1837, nella parte più bassa del Seralcadio, odierno Capo.
La macellazione e
la vendita della carne avveniva attorno alla piazzetta detta dei caldumai,
in pratica: venditori d’interiora.
I macellai non si facevano ricompensare in denaro, poiché la loro religione
lo vietava. In cambio del lavoro di macellazione, a titolo di regalìa,
trattenevano per sè le interiora dell’animale, escluso il fegato che era
ritenuto molto pregiato.
Per ricavarne del denaro, inventarono una pietanza:
dopo aver bollito, quindi sterilizzato le frattaglie, vendevano il prodotto
ai "gentili" (cristiani) che lo mangiavano per strada e con le
mani, (secondo una usanza trasmessa dai musulmani che mangiavano cibi senza
l’uso di posate, riservando l’uso del coltello solo per il taglio e la
frammentazione del cibo), unendo le frattaglie al pane e
arricchendo il tutto con ricotta o formaggio.