I frati ammettevano gli
estranei di solito dietro istituzione di legati perché si provvedesse a
suffragarne le anime.
Solo nel 1837, adeguandosi
alla pratica dei comuni cimiteri, appaiono i primi tariffari.
La tassa da pagare
veniva calcolata in relazione al
fatto che la salma doveva essere collocata in una nicchia o in una cassa
dopo il processo di mummificazione; oppure se si trattava di donna, uomo o
bambino, oppure che l’inumazione del cadavere avvenisse in una sepoltura
nel pavimento di cui le gallerie sono costellate.
Per quanto riguarda il metodo
usato dai frati per la conservazione dei corpi si sa poco o nulla: il più
comune era quello dell’essiccamento naturale mediante la sistemazione dei
cadaveri nei colatoi.
Dopo vari mesi in cui rimanevano chiusi ermeticamente,
i cadaveri erano estratti, lavati con aceto, ed esposti per qualche giorno
all’aria aperta.
Quindi rivestiti e collocati nelle nicchie o nelle casse
di legno. In caso di corpi di persone decedute per epidemie o per particolari malattie si usava porre i
cadaveri in un bagno di arsenico e di latte di calce; quest’ultimo dava
eguali risultati ma toglieva al corpo il colorito naturale.
Per assicurare staticità ai
cadaveri posti nelle nicchie in posizione eretta alcuni furono avvolti in
tela di sacco e imbottiti di paglia. Nel 1881 la giunta comunale di Palermo
proibì l’uso di questo sistema di conservazione, ma l’essiccazione
continuò per almeno altri quattro anni.
Un tempo ogni cadavere era
affidato alla propria famiglia, che si dedicava alla manutenzione con
spazzola, pettini, unguenti, capi nuovi di vestiario, ago e filo.
Un modo
sicuramente macabro, se pur velato d’affetto, di mantenere per sempre il
contatto con i propri defunti.