“Ballarò” che ha dato recentemente anche il nome ad una trasmissione
televisiva, ha una storia ben più misteriosa, visto che per risalire
alla sua nascita ci si affida alle testimonianze di un viaggiatore
arabo, il quale ritiene che già nel X° secolo si sia formato un grande
insediamento di piccoli negozi di generi alimentari proprio in tale
luogo.
Tuttavia, il documento più antico che ne parla, risale soltanto al
1827, secondo lo studioso Michele Amari, la sua caratteristica
denominazione, potrebbe riferirsi al luogo dove i contadini vendevano le
loro mercanzie e derivare, quindi, dall’Arabo “suq–al-Balari”, è tale
perché i prodotti provenivano dal casale Balera, nei pressi di Monreale.
Tutto intorno è un pullulare di colori, profumi e grida, queste ultime,
cantilene dal sapore orientale le cui parole sono decifrabili solo da
veri esperti, reclamizzano i prodotti in vendita.
I venditori creano quella musica capace di penetrare con assordante
cantilena in dialetto palermitano, dentro i padiglioni auricolari dei
passanti, (“abbanniare”) invitando ad acquistare la loro merce o cantano
canzoni con il pretesto di schermire il proprietario della bancarella.
C’è di tutto: dagli alimentari, ai profumi, alle stoffe, alle scarpe,
al pesce, principale polo di attrazione restano i grossi pentoloni di
rame “quarara” da dove scaturisce del fumo invitante, sono “robba”
bollita: patate o le “domestiche”, carciofini, cipolle, “carduni”,
“pollanche”, peperoni e fagiolina che solo a Palermo i nostri
fruttivendoli sanno apprestare.
La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli
(cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli),
“tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e
ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce.
Al mercato”americano” si trovava tutto quello che si può immaginare:
panciere, reggiseni, stoffe, pellicce, giacche di pelle, scarpe, abiti
da sera, costumi da bagno ecc., era il mercato di via Casa Professa a
pochi metri da Ballarò, oggi rimane solo una bottega che ricorda il
tempo passato.
Fare una puntatina al
“Capo” significa entrare in pieno nella
tradizione della città, di origine araba, è stato così chiamato per via
della sua posizione ed è circondato da splendide chiese barocche.
Esso rappresenta l’antico Seralcadio dall’arabo sari-al-qadi, rione
del Kadì, denominata così la parte superiore, nel suo antico ventre si
estende l’omonimo mercato formato da un quadrivio di vie dove il suo
asse principale è costituito dalla via Porta Carini che porta l’
equivalente titolo della settecentesca porta, riedificata riferendosi
all’originale quattrocentesca, che in quel periodo conduceva attraverso
la campagna a Carini e dalla via Beati Paoli dall’ innominata setta di
incappucciati da cui a tratto il nome di un’antica storia, molto
romanzata, che tra sei e settecento, proprio in questa via, si riuniva
segretamente in una grotta per punire chi perpetrava iniquità e soprusi
nei confronti dei deboli e degli indifesi, incrociandosi con una strada
che ha mantenuto la stessa caratteristica di mercato popolare, la via
Cappuccinelle da un lato e la via Sant'Agostino dall’altro con la
vendita di “ruttame” e “vistita”.
Dove trasuda opulenza e magnificenza, ma nello stesso momento,
scadimento e limitatezza, prologo grandioso di proteine e vitamine,
carboidrati e calorie mascherate da ogni sorta di genere commestibile.
Uno stretto budello si allarga e si restringe tra le bancarelle che
si proiettano dal di fuori in cui esse stesse nascono “i putii”, la
gente lo rende impraticabile perché si sofferma ad osservare, pattuire,
tastare e comprare.
Fondamentalmente il mercato è sempre stato luogo particolare per la
vendita della carne, anticamente nelle vicinanze esisteva il macello
civico detto “bocceria nuova” per la macellazione di becchi e altri
animali, diverse sono le “carnezzerie” (termine dialettale conseguente
alla dominazione spagnola) e non macellerie come vengono comunemente
chiamate, presenti e, le beccherie “chianche” che vendono carne di
castrato tagliata tradizionalmente nella “chianca” (dal latino planta),
un grosso ceppo d’albero, da qui la definizione.
Altro particolare, che stupisce, nel vedere i quarti di carne appesi al
di fuori della bottega, usanza sopportata, da quella che fu la presenza
ebraica in città, per depurare l’animale del suo sangue, caratteristica
è l’esposizione di capretti e agnelli in determinati giorni prefestivi,
completamente privi di pelle tranne la coda che mantiene il ciuffo che
fanno da quinta come sfondo al negozio.
Interiora (quadume), fegati e milze, testicoli e trippa, testine
d’agnello e piedi di porco li vende il carnezziere, “mussu”,
“carcagnuola” e “masciddaru”, le bancarelle di frattaglie che si
apprestano insieme alla “frittula”, un misterioso paniere che riserva
delle sopprese.
Palcoscenico merceologico fatto di tende dai multicolori, dove il sole a
stento riesce a penetrare e, di grosse lampade accese anche a
mezzogiorno e per tutta la mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”,
fatta ballare nel grasso bollente e stipata nel pane e mangiata per
strada.
Nella folla si confondono i venditori nomadi che propongono ai
passanti cucina di strada: “sfincione e “sfincionello” cauru e “ scarsu
uogliu e chiinu di puvulazzu”.
Ci sono i “riffaturi”, con la lotteria privata, le loro “carrozzelle”
(solo il telaio) girano con il trofeo, con un biglietto si può sperare
di vincere la spesa per una settimana, una cesta di pesce o una parte di
carne o dei soldi o altro genere inerente al consumismo.
I loro clienti non sono mai occasionali, gli stessi detentori e
gestori di “putia” partecipano a questa strampallata riffa garantendo
allo stesso il suo prosieguo.
Emerge dai banchi di vendita la facciata barocca della chiesa
dell’Immacolata Concezione, che a guardarla da fuori, nasconde le
magnificenze conservate all’interno, vero trionfo del barocco fiorito
palermitano, orgoglio delle sue maestranze locali.
Quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a “mischio e
tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una cappella
di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra dopo la
distruzione del suo annesso convento.
Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica
che solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto
pittorico di cui la tradizione a saputo tramandare.
Via Sant’Agostino prende il nome dall’omonima chiesa trecentesca,
mentre via Bandiera, naturale prosecuzione della prima, venne così
chiamata perché su palazzo Lionti, nella stessa strada, si poteva vedere
un putto marmoreo che sorreggeva una bandiera.
“Borgo Vecchio” che sorge alle spalle del teatro Politeama e si
allarga fino alla costa, poco distante dal porto, in realtà, le sue
botteghe multicolori sono particolarmente recenti, essendo sorto intorno
al 1860, dopo il fallimento di un altro mercato popolare ed ha un
carattere prevalentemente ortofrutticolo.
La frutta sistemata e “apparata”, secondo la loro colorazione ed
effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola, ecc., senza
tralasciare le altre mercanzie comuni agli altri mercati.
Nelle vicinanze della Cattedrale tra il corso Alberto Amedeo e la via
Papireto esiste la piazza Domenico Peranni, intitolata all’ex sindaco di
Palermo che governò verso la fine dell’ottocento.
La piazza composta da una strada centrale ad attraversamento con ai
lati due marciapiedi alberati, ha dato la possibilità a dato negli anni
cinquanta a dei rigattieri di stazionare sopra le banchine, i propri
oggetti all’interno di casupole in legno e lamiera utilizzando come
principale sostegno la presenza degli alberi, prestando così a poco a
poco corpo a quello che ormai tutto il mondo conosce come
“il mercato
delle pulci di Palermo”.
Il mercato, è una mostra permanente dell'antiquariato italiano e in
particolare di quello siciliano, si apre proprio in questa piazza che i
palermitani chiamano del Papireto, denominata così per via del laghetto
dei papiri che crescevano, in antichità in questo luogo.
Si possono trovare oggetti antichi, mobili vecchi e curiosità varie, fra
cui sempre più frequenti oggetti di modernariato degli anni '60 e '70.
L’attraversamento stradale, consente ai visitatori di scrutare, cercare,
mercanteggiare e acquistare di tutto: pezzi autentici, anticaglie,
patacche, quadri, libri e soprattutto mobilio antico e ristrutturato con
pezzi vecchi secondo un certo stile.
Si trovano i “lavamanu” di ferro smaltato con “vacili e bucali” che a volte era
anche in pesante maiolica, di solito completava l’arredamento “d’u ritre”,
quando nelle case non c’era ancora l’acqua corrente, oggi si utilizza
per decorare le camere da letto.
Letti di lamiera smaltati con intarsi di madreperla, tipici dei primi
del novecento siciliano, “tulette” ballerina con la “balata” di marmo e
con lo specchio girevole tramite l’asse orizzontale che il retro
conteneva sempre una rappresentazione di una giovane donna ammicchevole.
Questi sono i luoghi dove da millenni si ripetono gli stessi gesti, che
essi siano alimentari, tanto che i palermitani li definiscono le piazze
di “grascia”, non sanno di meno le altre attività commerciali in cui il
tempo si è fermato.
Quello che più stupisce dei nostri mercati è la semplice vitalità
immersa nel disastro della modernità, che da sempre fanno di questi, il
più grande teatro a cielo aperto: il teatro della vita.
n.d.r. Il seguente testo è stato pubblicato nel magazine “UTILITY” anno II numero I Aprile 2009. Un rivista che esce a Palermo
e si occupa di cultura, società e turismo.