Qui persistevano vecchi edifici e case fatiscenti, tra cui
l’antica porta e torre della struttura muraria musulmana Busuemi,
ricadente all’interno della superficie di Palazzo dei Conti Federico che
ha il suo prospetto in stile tardo-barocco sulla via Biscottai e la
preesistente chiesetta di San Pietro in Vinculis edificata nel 1533 per
conto della confraternita di San Mercurio e, riedificata successivamente
per volontà del vicerè Don Pedro Emanuele Colon Duca di Varaguas nel 1697
per sciogliere un voto, ubicata ad angolo tra la via Benfratelli e la via
Castro.
Di fattura barocca si presentava molto più
grande rispetto alla precedente, possedeva otto altari che erano
distribuite in cappelle laterali e un altare maggiore costituito da un
complesso marmoreo policromo sostenuto da due grandi Angeli in marmo
grigio (Billiemi).
La cappella della Madonna di Belèn, come era chiamata affettuosamente, era
ubicata sul lato sinistro della chiesa che aveva l’ingresso principale in
via Castro, ed era la terza cappella molto più sontuosa, ornata di stucchi
e oro ed aveva una sua particolare fisionomia era di foggia cilindrica,
atta a divenire patronato della famiglia del Viceré.
La chiesa venne completamente distrutta dal bombardamento aereo del 1943 e
oggi la superficie che la occupava è malamente abbandonata.
La configurazione dell’ospedale si
presentava come un grosso poliedro, la scarsa documentazione e i vari
rimaneggiamenti, le devastazioni dell’ultimo conflitto non consentono di
tracciare un quadro leggibile, ma appena approssimativo dell’antico
nosocomio.
Al centro di questo poliedro si apriva un vasto chiostro con una fontana
di marmo di Billiemi in cui era sormontata da un elemento decorativo e
significativo quale l’emblema dei Fatebenefratelli: il granato, dal di
fuori si aggettava in esso l’ingresso principale “Portiera”.
Successivamente si accedeva attraverso due porte che immettevano nel
cortile, ad oriente l’ingresso principale possedeva un portale in pietra
d’intaglio, ad occidente un altro ingresso aperto intorno al 1726 per
permettere ai cittadini di conquistare la “spezieria”.
Da uno scalone si accedeva al piano superiore dove erano ubicati gli
alloggi conventuali, le officine e il salone-corsia per la degenza degli
ammalati di particolare magnificenza.
Esso abbraccia l’ala destra del fabbricato, di cui la sala ha una
lunghezza di m. 43,50 e una larghezza di m. 7,95, suggestivo è il soffitto
che si presenta a cassettoni di legno policromo con motivi floreali (per
la circostanza sono rappresentati foglie e fiori del melograno).
Lungo le due pareti principali che risultano essere altissime, si
sgrovigliano una serie di affreschi illustranti episodi della vita di San
Giovanni di Dio, attribuiti al pittore monrealesi Pietro Novelli
(1603-1647).
Gli affreschi si presentano nella loro
unicità molto cromatici, la corposità del disegno e la scenografia
risaltano la disposizione degli sfondi.
Detti affreschi occupano la parte superiore della corsia lasciando libera
quella inferiore occupata dai lettini con l’alcova e permetteva ai degenti
di poterli osservare mentre erano coricati nei loro letti.
Essi avevano lo scopo di catechizzazione,
affinché il malato accettasse questo tipo di opinione, visto che in quel
periodo era obbligatorio confessarsi entro tre giorni, pena l’espulsione,
ma i frati del Fatebenefratelli sorvolavano e si limitavano a suggerirlo.
La luce penetrava all’interno attraverso le alte finestre che
intercalavano gli affreschi, senza che questa colpisse in faccia gli
ammalati.
In fondo all’aula, tra le due ali maggiori
stazionava l’altare che era sovrapposto da una tela di Pietro Novelli
raffigurante San Pietro in Vinculis (attualmente custodita presso la
Galleria Regionale della Sicilia), dove ogni giorno veniva celebrata la
Santa Messa.
Alla destra dell’altare una porticina conduceva ad un piccolo ambiente
utilizzato come camera di degenza per i preti infermi, un particolare
accorgimento per non disturbare la sfera del pudore corporale dei
religiosi.
Alla sinistra un piccolo passaggio
permetteva ai frati di raggiungere la medicheria ed ai laboratori per
potersi dedicare alle pratiche degli ammalati.
In tutti gli ospedali dei Fatebenefratelli era prerogativa la presenza
della spezieria (farmacia), in quello di Palermo era ubicata poco dopo la
“portiera” sulla destra alla quale era preposto un religioso e serviva
anche il pubblico attraverso un bancone chiuso da una grata.
I frati erano abbastanza rinomati per la loro arte e per l’ottima qualità
degli elaborati che producevano, le erbe li coltivavano personalmente
specialmente i più ricorrenti e, il speziale doveva avere delle ottime
consapevolezze di botanica.
A Palermo i frati speziali producevano
decotti, infusi, sciroppi, porzioni ed impiastri, i principi attivi di una
sostanza medicamentosa erano prodotti già nel XVII secolo con la
distillazione di succhi, oli ed infusi, eliminando le componenti inutili e
dannose.
Alcuni medicamenti erano confezionati non solo con le erbe ma tratti anche
dal mondo animale e dalle materie organiche ed inorganiche della scienza
chimica, strettamente legata all’alchimia che fece di tutto per trovare la
pietra filosofale.
Palermo fece scuola, molti speziali ed erbaioli venivano all’ospedale dei
fatebenefratelli ad imparare il mestiere, non a caso il famoso Giuseppe
Balsamo pseudo Conte di Cagliostro frequentava la loro farmacia, la sua
casa natale era prospiciente a via Scarparelli, nelle adiacenze dove vi
rimaneva per ore guardando con interesse i frati che preparavano le
porzioni, a lui interessavano i veleni ed i filtri per ipnotizzare.
In un secondo tempo la spezieria
diventò una Clinica Omeopatica dove si
insegnavano le cure alternative con
l’uso dei vegetali, molti erbaioli
impararono qui il mestiere.
I frati ricoveravano tutti quei malati che rifiutavano gli altri nosocomi
che, per necessità di spazio o per la loro particolare categoria
sanitaria, non accettavano altri tipi di malati.
I frati si interessavano a dare una degna sepoltura sia ai confratelli che
ai malati, nel 1924 al di sotto dell’ospedale è stata scoperta una vasta
cripta cimiteriale con tanto di colatoi a sedile e tavoliere per
l’esposizione comune usanza di quel periodo.
Anche il clero aveva il suo ospedale, per
motivi logistici era ubicato proprio nei pressi del Palazzo Arcivescovile,
fondato nel 1695 dall’Arcivescovo Ferdinando Bazan era detto l’ospedale
dei Sacerdoti, poiché ospitava i sacerdoti infermi, vi si accedeva da una
scalinata sul fianco sinistro tramite un antico portale a sesto poligonale
con festoni pensili in pietra d’intaglio, alle dipendenze è situato
l’oratorio dei SS. Pietro e Paolo, fatto costruire nel 1697-98 su progetto
di Paolo Amato e abbellito con magnifici stucchi di scuola Serpottiana.
San Teodoro era riservato a tutti i pellegrini (xenodochio),
Santa Maria la
Raccomandata era esclusivamente per le pie donne, San Dionigi era
riservata per la nobiltà, San Giovanni dei Lebbrosi in primo tempo era un
lebbrosario, successivamente per i malati di mente, per i scabbiosi, per i
tubercolosi, San Bartolomeo alloggiava sifilitici e ulcerosi, il Filippone
adibito alle solo donne, aveva ambulatori e stanze d’alloggio.
Molte di queste strutture erano considerate
private perché gestite da Ordini Religiosi, da confraternite e da persone
benefiche, ma presto vennero soppressi o demoliti per far posto
all’ospedale Grande e nuovo come struttura pubblica.
L’ospedale dei Fatebenefratelli nella sua corsia poteva ospitare quaranta
malati poiché tanti erano i posti letto e quaranta religiosi, uno per ogni
ammalato, li assistevano, con un movimento annuo di 1000 malati, che
aumento con l’aumento dei posti letto a cinquanta nel 1715.
Nella seconda metà dell’ottocento i posti
letto si riducono a venti, intorno al 1872 l’ospedale viene soppresso e i
suoi locali vennero adibiti a caserma per l’esercito sabaudo ed infine nel
1887 organizzati per essere utilizzati da un istituto scolastico, i beni
annessi alla vecchia struttura e alla gestione religiosa furono
incorporati al nascituro Ospedale Civico.