Simbolo della sfarzosa chiesa barocca
e dall’annesso convento, decorata esternamente da stucchi, cosa insolita
per una struttura esterna, esposta a tutte le intemperie, in cui
spiccano quattro telamoni che intervallano dei grandi finestroni, la
loro presenza è a sostegno della calotta dove culmina il lanternino è
ingentilita da maioliche palermitane smaltate di color verde e nero,
colori che rappresentano la personificazione dello stemma dei
Carmelitani, che giunsero a Palermo nel 1238, ancora prima che
giungessero i Padri Gesuiti tanto che tutto il territorio veniva
definito del “Carmine”, oggi relegato nella zona dell’Albergheria che si
estende tra il suo asse viario principale che è la via del Bosco e la
via Albergheria ed il tratto che costeggia le mura medioevali presso la
porta Sant’Agata e limitata a monte dalla piazza dove è ubicato il
ritiro di San Pietro.
L’interno,
dell’attuale chiesa del Carmine Maggiore, si delinea in un
livello superiore rispetto a quello stradale dove è ubicato l’ingresso
principale.
A pianta basilicale di notevoli dimensioni a croce latina ed è suddivisa
da tre navate che vengono ripartite da distinte cappelle, sia destra che
a sinistra, a livello del transetto le due cappelle molto indicative,
gli altari recano, in una, la tavola raffigurante la Madonna del Carmelo
eseguito nel 1492 da Tommaso de Vigilia, nell’altra, dedicata al SS.
Crocifisso con un’iconografia seicentesca.
Entrambi gli altari, recano, incorniciandoli, due mirabili colonne
tortili che nei girali concentrano in esse delle rappresentazioni
realizzate a stucco su fondo di oro zecchino, che raccontano la vita di
Gesù e quella di sua Madre, queste eccezionali opere furono realizzate
dai fratelli Giuseppe e Giacomo Serpotta risalenti al 1683.
L’altare maggiore è stato realizzato nel 1622 in marmi misti di
provenienza siciliana dando un effetto policromo a tutto l’insieme
aggiungendo delle statuine a rilievo in legno dorato.
Sullo
sfondo uno stucco a rilievo riproduce una raggiera dorata dove si adagia
la figura candida dell’Agnello di Dio disteso sul libro sacro.
Un monastico coro in legno di noce scolpito nel 1703 si delinea lungo il
perimetro dell’abside semicircolare della chiesa.
Altra notevole opera liturgica è la statua argentea della Madonna del
Carmelo conservata all’interno della prima cappella della navata di
sinistra subito dopo la scalinata, nascosta per tutto l’anno e rimossa
fuori nel mese di luglio per la sua festa, organizzata dai confrati del
T.O.C..
Dalla navata di sinistra si accede nel chiostro del convento, l’attuale
è quello cinquecentesco ed è disposto a rettangolo con un loggiato
configurato da colonne in marmo bigio dai capitelli ionici.
Ad ogni capitello è riprodotto uno stemma di una famiglia nobile che
contribuirono alla sua costruzione, dal porticato una scala a chiocciola
conduce al tetto della navata di sinistra qui staziona una turrita torre
che oggi funge da campanile.
Un parallelogramma si innalza verso il cielo a tre ordini, nel primo il
vano d’accesso risulta chiuso, sicuramente in precedenza l’ingresso al
piano terra era costituito dove oggi è alloggiata l’anticamera che porta
alla sacrestia visto che il vano quadrato corrisponde il linea alla
sopraccitata torre.
I due ordini superiori, il primo aperto in ogni lato da più finestre con
arco acuto, di cui alcuni per questione di staticità sono state
tamponate, l’ultimo ordine, circoscritto da un marcapiano, nei quattro
lati, per ogni lato, sono aperte gli stessi varchi del piano di sotto e,
alloggiano le campane.
Sicuramente
il torrione è un elemento riutilizzato del XVI secolo che faceva parte
delle torri civiche che venivano utilizzate per cadenzare i gesti della
vita sociale della città.
Costruita con materiale di pietra arenaria a conci squadrati “a faccia
vista” e legati tra di loro da una malta bianchiccia.
Ritornando nel chiostro c’è la
possibilità di uscire da una porta
laterale che costeggia le strutture
del convento e, addentrandosi per
strade e vicoli si possono scoprire
piccoli cortili e le grandi corti di
palazzi nobiliari per poi sostare
nelle vicinanze di un antico palazzo
restaurato il cui androne è
diventato un luogo particolare, in
questo luogo si confezionano le
“scorze” per i cannoli dolce tipico
del periodo carnevalesco.
La strada prosegue per giungere
all’antica parrocchia del quartiere dell’Albergheria, situata nella
parte a monte di piazza Ballarò, intitolata a San Nicolò, già
citata in un documento del 1259.
L’originaria chiesa dice il Di Giovanni nel “Palermo restaurato” fu
costruita per conto della famiglia di Matteo Sclafani affinché divenisse
la sua cappella.
Ricomposta diverse volte, nulla rimane delle vecchie strutture
medioevali, gli unici pezzi architettonici riscoperti sono sul fianco
meridionale, un portale ad arco acuto e di monofore con doppia ghiera,
all’originale basamento nel XVIII secolo al prospetto fu apportata una
trasformazione, si ricavò una edicola “votiva” per accedervi la statua
marmorea dell’Immacolata Concezione che recapita una dedica a San
Nicolò.
L’interno a tre navate con quattro altari, ha pianta basilicale con le
abside posizionata in direzione dell’oriente, sostenuta da pilastri che
ne dividono le navate, all’altezza del transetto si mostra una finta
cupola a cassettoni dipinta.
Fra
le curiosità importanti è la tela dipinta ad olio che era conservata in
sagrestia è oggi al museo Diocesano di Palermo che rappresentava la
mappa del “distretto parrocchiale di San Nicolò all’Albergheria”
rilevata nel 1749, con le esatte dislocazioni delle principali eminenze
architettoniche e la locazione delle torri civiche.
Quest’ultime erano legate tra di loro
da un sistema di comunicazioni che permetteva di avvisarsi in caso
d’attacco per questo erano dette torri di difesa, durante la vita
quotidiana scandivano il tempo lavorativo con il movimento di campane, a
partire dal XIV secolo si cominciò a munirli anche di orologi, perduta
la loro funzione difensiva ne divennero campanili o torri camparie.
Quelle civiche nella città di Palermo
nel XVII secolo erano undici ed erano iscritte nel libro paga dell’Universitas
palermitana perché costruite e amministrate proprio dal Senato (comune),
erano armate ed avevano personale proprio.
La costruzione di queste strutture, allora sottolineava la supremazia
del governo comunale sui palazzi nobiliari o dei più facoltosi cittadini
che privatamente se l’edificavano e si governavano.
Attaccata alla chiesa sorge una
slanciata costruzione quadrangolare con i conci ben squadrati, si tratta
della trecentesca torre civica facente parte del sistema di
trasmissioni.
Fatta edificare dalla universitas palermitana per difendere le mura del
“Cassaro”, non faceva parte delle strutture della chiesa, ma risultava
svincolata ed isolata.
Torre d’eccellenza, forse la più alta di Palermo, perduto il significato
di difesa, successivamente si volle ingentilire e perdere il suo austero
aspetto, applicandogli al secondo livello, delle finestre ingentilite da
bifore con l’applicazione d’intarsi.
Le nuove strutture basilicali a partire dal XVI secolo si appoggiarono
nel successivo secolo al torrione per cui divenne il campanile di
questa.
Nel XVI secolo sacrificando una bifora dell’ultimo piano, di cui si era
già arricchita, vi fu apposto un orologio come riferiscono i registri
del Senato palermitano e costituiva uno dei tre orologi della città,
insieme a quelli di Sant’Antonino Abate e di Santa Lucia al Borgo.
Questi battevano la “castiddana”
per annunciare agli artigiani di chiudere bottega e alla popolazione di
non girovagare più per le strade senza preventivo permesso di un
magistris civico, pena il pagamento di cinque onze se intercettati dalla
“sciorta” (ronda), perché a quell’ora venivano chiuse le porte della
città.
La “castiddana” (castellana)
consisteva nel rintoccare cinquantadue colpi di martello alla campana
alle due di notte, corrispondenti alle due ore dopo l’Avemaria, con la
quale, secondo il conteggio “all’italiana”, aveva inizio il nuovo
giorno.
Oggi questo orologio non è più
visibile, è stato tolto durante i restauri del XX secolo riconquistando
l’antica monofora e, nemmeno la guglia della torre, eliminata in seguito
ai danneggiamenti inferti dal terremoto del 1726.
La torre composta da quattro livelli è stata edificata con pietrame a
grossi conci, utilizzando massi tufacei squadrati, che le ammassano,
dandogli una linea rigorosa ed severa.
Il primo da là possibilità di entrarvi da un pianoro che risulterebbe al
primo piano che introduce alla canonica della chiesa, è formato da un
modesto vano quadrato coperto da volte a crociera, da questo si diparte
una scala in muratura che porta al piano successivo.
Dal secondo piano, che risulta essere quadrato come quello inferiore e
coperto a crociera, si dipana una scala elicoidale del periodo
medioevale che oltrepassa gli altri due piani per giungere sul tetto,
dove attualmente sono presenti le campane della chiesa. (*)
Rientrando dopo aver ammirato lo
sfavillante paesaggio, dove l’occhio spazia dalla cerchia dei monti fino
al mare osservando i tetti e le cupole della città, sì ci rimette in
strada per raggiungere attraverso via Porta di Castro, antico letto del
fiume Kemonia, il vicolo Conte Federico, chiamato così dalla presenza
dell’omonimo palazzo della famiglia dei Conti Federico abitato
dall’ultimo discendente dell’imperatore Federico II, che ha il suo
prospetto principale in stile tardo-barocco con una allungata struttura
di eleganti balconi dalla predisposta ringhiera in ferro battuto (a
petto d’oca) che si affacciano sulla via biscottai.
Questa antica arteria, faceva parte
del vetusto percosso meridionale delle antiche mura punico-romane che
circoscriveva il nucleo originario della città, nel medioevo detta “ruga
del Trabocchetto”, in tempi passati era indicata con questo appellativo
per il semplice fatto che esisteva un forno che produceva biscotti di
una certa qualità.
La strada, ancora oggi porta
questa denominazione ed è conosciuta
dai palermitani per via di un detto
popolare che richiama la presenza di
un’edicola sacra dove è mostrata
un’immagine dell’Ecce
Homo.
Dal vicolo, dove è possibile ammirare
l’esteso prospetto del retrostante palazzo, si riscontra una struttura
turrita che venne aggregata durante la costruzione della dimora che
inglobandola ne divenne parte integrante, è la torre “Busuemi”,
in origine erano due le torri ed erano state costruite sopra le mura
punico-romane, l’insieme di queste erano ubicate in prossimità delle
sponde del fiume Kemonia, a difesa dell’omonima porta che permetteva di
pervenire dalla parte orientale della città.
L’appellativo “Busuemi” è di origine
araba, il suo significato è di “Porta dei Negri”, ricordata da Vincenzo
Di Giovanni con il nome di torre del Scrigno, perché appartenuta a
questa famiglia.
In linea d’aria con la torre di San Nicolò, è appartenuta al governo
cittadino, oggi risulta serrata, dove è difficile distinguere le
primitive strutture che le conferivano una gentilezza architettonica
particolare.
Costruzione quadrangolare, l’unica facciata scoperta verso l’esterno e
quella della parte meridionale che si affaccia sulla piazzetta Conte
Federico.
Costruita con conci squadrati di pietra tufacea , molto manomessa nei
secoli, nell’ultimo ordine si apre una doviziosa bifora trecentesca
sorretta da colonnina, decorata nella parte esterna con un disegno a
tarsie, con mescolanza a due colori, composta da un’elegante successione
da piccole arcate raffinatamente elaborate, è la mensola di sostegno
alla colonnina.
Accanto alla bifora si notano visibilmente degli incavi tompagnati che
in origine dovevano contenere degli archi a sesto acuto, trasformati
successivamente in feritoie.
Nei livelli più bassi si aprono delle imposte per uniformare la
successione dei balconi che si distendono nel prospetto.
L’accesso alla torre, in epoca attuale è dall’interno del palazzo,
l’unico ambiente godibile e la stanza dell’ultimo livello dove persiste
la bifora per l’affaccio, locale ancora quasi originario dove, oltre a
conservare le armi e le armature medievale, sono custoditi gli stemmi
autentici della città di Palermo, e dei suoi dominatori, Svevi e
Aragonesi.
Questa affascinante dimora offre, una possibilità quasi unica, quella di
essere ospiti in alcune camere del palazzo per vivere davvero
un’esperienza speciale.
Ritornando su piazza “Ballarò” è il
caso di andare a guardare dove nacque un intraprendente popolano, un
palermitano di Ballarò nel gran secolo dei lumi.
(*) La torre di San Nicolò all’Albergheria
è gestita dall'associazione Palermo Felix
BIBLIOGRAFIA
- Pippo Lo Cascio - Le torri di
Palermo - Ed. del Mirto 2006.
- Carlo Di Franco - I quattro mandamenti di Palermo – Ed. E.D.R.I.S.I.
1992.
- Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restaurato – Ed Sellerio rist. an.
1989.