Nella costumanza popolare la festa dell’Assunta era considerata “u secunnu fistinu di Palermu” (il secondo festino di Palermo), per la quale
luminarie e giochi di fuoco riaccendevano le calde notti palermitane, e la
gente dei quartieri si riversava ai cappuccini per rendere omaggio alla
Vergine, affettuosamente enunciata “a Madonna Lagnusa”, perché distesa sul
letto, e per la quale i ragazzi nei giorni precedenti alla festa, con
encomiabile fervore, avevano allestito le “varicedde” da portare in giro per
le vie dei rioni della città e dei rioni periferici. Ovunque ci fosse una
parrocchia, lì si organizzava la processione!. Essi s’impegnavano ad
acquistare una statua della Madonnina (di cera o di creta), la impiantavano
sopra una piccola “vara” di legno che fabbricavano con le proprie mani e la
completavano con una sorta di cancellata, formata dalle piccole candele.
”Preziosamente” addobbata (come voleva il cerimoniale istituito alla
Cappella Palatina) con fiori di carta, con lo “stiddaru” (stellario, da
porre dietro la nuca della statua) ricavato da assi di legno dorate o
rivestite di stagnola, disposte a raggio di sole, che al centro includeva
una piccola colomba raccolta in un batuffolo di bambagia. E ancora, drappi
dai tenui colori a ricoprire la “varicedda” e, se ve n’erano diponibili,
anche fiori veri, in abbondanza. Alla costruzione della varicedda
partecipavano le famiglie e gli artigiani del rione, fornendo ogni sorta di
materie prime o, nel caso dei falegnami, aiutando i ragazzi a costruire un
sostegno abbastanza solido!
Annunciavano il loro
passaggio al suono di un’echeggiante campanella, si fermavano davanti ad
ogni casa o a richiesta dei passanti che volessero recitare una preghiera e,
con un’ingenua questua, cercavano di riempire il loro piccolo salvadanaio,
per poter disporre di un piccolo capitale da investire nella varicedda di
quell’anno (nuove candele, abbellimenti) e in quella dell’anno successivo.
I festeggiamenti iniziavano con la tradizionale “Quindicina”, un voto
che, per devozione, impone di astenersi dal mangiare frutta fresca o di bere
vino dal primo al quindici agosto, in segno di mortificazione. Nel
pomeriggio del 15 agosto, dinanzi alla chiesa, si chiudeva il voto e, tra
una rumorosa calca d’uomini e donne, di vecchi e fanciulli e tra un continuo
vociare di venditori di meloni, pizze e di tante altre cose, era uso
bruciare “lu mazzuni” un enorme mazzo d’ampelodesmo (“ddisa”, erba
mediterranea spontanea negli ambienti sabbiosi).
In tempi più recenti il falò venne sostituito da un breve fuoco
pirotecnico. Dopo, iniziava la solenne processione che si concludeva, la
sera, con lo sparo di fuochi d’artificio di maggiore effetto.
Di tutti questi festeggiamenti, oggi resta il ricordo dei più anziani,
naturalmente più attaccati alle antiche tradizioni. Le nuove realtà,
l’indifferenza ed il disimpegno di molti, uniti alle nuove esigenze di una
città forse cresciuta troppo in fretta, ma che non riesce a “svuotarsi” nel
mese di agosto, ha creato nuove abitudini e finanche nuove utopie lussuose,
rigorosamente tutte da vanificare nell’arco di trenta giorni.