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PANORMUS - USANZE

U FIRRAUSTU, IL FERRAGOSTO PALERMITANO

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Nei primi anni dell’ottocento, la principessa Maria Cristina di Savoia, moglie di Ferdinando II di Borbone, devota a Maria, volle il simulacro a Palazzo Reale per esporlo nella Cappella Palatina. Lo rivestì di vesti preziose, (l’attuale abito di retina d’oro è dono della stessa regina). Divenne una tradizione del cerimoniale dell’ottava che in seguito fu incluso nei programmi dei festeggiamenti.


Nella costumanza popolare la festa dell’Assunta era considerata “u secunnu fistinu di Palermu” (il secondo festino di Palermo), per la quale luminarie e giochi di fuoco riaccendevano le calde notti palermitane, e la gente dei quartieri si riversava ai cappuccini per rendere omaggio alla Vergine, affettuosamente enunciata “a Madonna Lagnusa”, perché distesa sul letto, e per la quale i ragazzi nei giorni precedenti alla festa, con encomiabile fervore, avevano allestito le “varicedde” da portare in giro per le vie dei rioni della città e dei rioni periferici. Ovunque ci fosse una parrocchia, lì si organizzava la processione!. Essi s’impegnavano ad acquistare una statua della Madonnina (di cera o di creta), la impiantavano sopra una piccola “vara” di legno che fabbricavano con le proprie mani e la completavano con una sorta di cancellata, formata dalle piccole candele.

”Preziosamente” addobbata (come voleva il cerimoniale istituito alla Cappella Palatina) con fiori di carta, con lo “stiddaru” (stellario, da porre dietro la nuca della statua) ricavato da assi di legno dorate o rivestite di stagnola, disposte a raggio di sole, che al centro includeva una piccola colomba raccolta in un batuffolo di bambagia. E ancora, drappi dai tenui colori a ricoprire la “varicedda” e, se ve n’erano diponibili, anche fiori veri, in abbondanza. Alla costruzione della varicedda partecipavano le famiglie e gli artigiani del rione, fornendo ogni sorta di materie prime o, nel caso dei falegnami, aiutando i ragazzi a costruire un sostegno abbastanza solido!

Annunciavano il loro passaggio al suono di un’echeggiante campanella, si fermavano davanti ad ogni casa o a richiesta dei passanti che volessero recitare una preghiera e, con un’ingenua questua, cercavano di riempire il loro piccolo salvadanaio, per poter disporre di un piccolo capitale da investire nella varicedda di quell’anno (nuove candele, abbellimenti) e in quella dell’anno successivo.

I festeggiamenti iniziavano con la tradizionale “Quindicina”, un voto che, per devozione, impone di astenersi dal mangiare frutta fresca o di bere vino dal primo al quindici agosto, in segno di mortificazione. Nel pomeriggio del 15 agosto, dinanzi alla chiesa, si chiudeva il voto e, tra una rumorosa calca d’uomini e donne, di vecchi e fanciulli e tra un continuo vociare di venditori di meloni, pizze e di tante altre cose, era uso bruciare “lu mazzuni” un enorme mazzo d’ampelodesmo (“ddisa”, erba mediterranea spontanea negli ambienti sabbiosi). In tempi più recenti il falò venne sostituito da un breve fuoco pirotecnico. Dopo, iniziava la solenne processione che si concludeva, la sera, con lo sparo di fuochi d’artificio di maggiore effetto.

Di tutti questi festeggiamenti, oggi resta il ricordo dei più anziani, naturalmente più attaccati alle antiche tradizioni. Le nuove realtà, l’indifferenza ed il disimpegno di molti, uniti alle nuove esigenze di una città forse cresciuta troppo in fretta, ma che non riesce a “svuotarsi” nel mese di agosto, ha creato nuove abitudini e finanche nuove utopie lussuose, rigorosamente tutte da vanificare nell’arco di trenta giorni.


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