Un vecchio proverbio contadino dice
che a Santa Lucia è “ù jurnù chi ù curtu cà c’è in tuttu l’annu”.
In questa giornata si apre il periodo del lento incremento della luce
diurna e annuncia la fine dell’oscurità invernale, esso è l’equivalente
del detto: “La cchiù longa nuttata chi ci sia”.
Lo stesso nome Lucia, rappresenta il
femminile di Lucius (Lucio) che significa “promessa di luce”, questo
nome a dato la possibilità al popolo di invocarla come protettrice della
vista e della sanità degli occhi.
Fra le leggende agiografiche scritte
per esaltare la Santa per una falsa analogia del suo nome foneticamente
vicino alla parola luce, c’è ne una che narra che essendosi innamorato
dei suoi occhi un giovane del luogo, Lucia, ligia al dettame del Vangelo
dove una frase scritta da Matteo si pronuncia: se i tuoi occhi suscitano
peccato, strappali e buttali via, si strappo gli occhi e li mandò in
dono al giovane innamorato.
Di notte, andò a trovarla al capezzale del suo letto Gesù che la guarì
dalla cecità rimettendole nelle orbite gli occhi, più belli e più dolci
di prima.
Ad essa si raccomandano coloro che
temono le affezioni della vista, i miracolati di qualsiasi località
della Sicilia in cui abitano, in questo giorno anticamente offrivano ex
voti di cera, nel nostro tempo impreziositi con metallo d’argento, che
rappresentavano l’organo di questo senso.
La Santa, patrona di Siracusa
di cui a dato i natali e, anche protettrice di Santa Lucia del Mela,
venerata in diversi paesi delle diocesi della Sicilia ed in particolare
di quella palermitana.
Morì nel 304 a Siracusa martirizzata sotto la persecuzione di
Diocleziano, la sua tortura durò parecchio tempo, scemata dalle forze,
spirò nella sua cella che non riuscì mai a lasciare tranne per essere
straziata, il suo culto, fin dall’antichità si diffuse in quasi tutta la
Chiesa cristiana e il suo nome iscritto nel Canone romano, probabilmente
da Gregorio Magno papa palermitano.
Sovente nelle sue immaginette votive la santa è rappresentata con in
mano un piatto, su cui sono posti i suoi occhi, strappatigli dai
carcerieri, ma negli atti della sua vita attualmente esistenti non viene
mai menzionata una simile tortura.
Ricchi di significato espressivo appaiono anche la palma, simbolo del
martirio e la lampada, metafora della luce.
A Palermo, in questo giorno in
cui si celebra la Vergine siracusana, si ricorda un vetustu avvenimento,
che la Santa implorata dai palermitani esaudì facendo arrivare nel porto
un bastimento carico di grano.
I palermitani stretti nella morsa della fame da diversi mesi di
carestia, non molirono il grano per farne farina, ma lo bollirono, per
sfamarsi in minor tempo, aggiungendogli soltanto un filo d’olio, creando
così la “cuccia”.
Da quella volta i palermitani specialmente in ambito popolare, ogni anno
per devozione ricordano solennemente l’evento, rigorosamente ricorrono
all’astensione per l’intera giornata dal consumare farinacei, sia pane
che pasta, si preferisce mangiare riso, legumi e verdure, questi ultimi
due alimenti ci riferisce il Pitrè anticamente in questo giorno erano le
ragazze palermitane che per venerazione se ne cibavano e non doveva
mancare la “cuccia”, questa tradizione era dovuta alla preservazione
degli occhi incantevoli.
A questa devozione i palermitani la
riportano ad un vecchio motto: “ Santa Lucia, pani vurria, pani nu
nn’haiu, accussi mi staju".
All’occasione quasi tutti i
panifici della città rimangono chiusi e, a predominare sul
territorio rimangono le numerose friggitorie sia quelle stabili che
quelle ambulanti che con i loro particolari trabiccoli raggiungono in
ogni angolo gli avventori che per l’occasione diventano tormentosi con
frequenti irruzioni dove possono cibarsi di “panelle di ceci” e
di “crocchè”, è il loro giorno trionfale, un tempo, si facevano
soltanto nei giorni che precedevano e seguivano questa festività
(ved.Art.) e, nelle
molteplici pasticcerie.
Quest’ultime, dai locali monasteri
hanno tramandato l’uso di utilizzare l’antica “cuccia” che
condita con crema di ricotta e cannella o con scaglie di cioccolata, si
è trasformata in uno squisito dolce che viene prodotto solo
esclusivamente il tredici dicembre.
Dolce da gustare dopo una gran
scorpacciata di “arancine” realizzate con il classico
ingrediente a base di riso e, principalmente farcite da un concentrato
di ragù con carne tritata e pisellini.
Per i sofferenti di stomaco la bella pallottona di riso, simile ad una
grossa arancia, la preferiscono imbottita da una manciata di burro, il
tempo e il gusto a fatto sì che anche questa pietanza si aggiornasse con
nuovi elementi tra cui le verdure e non a caso più delle volte sono gli
spinaci a infarcire questa gustosa ghiottoneria.
A pranzo solitamente i palermitani per non mangiare la pasta si rifanno
al riso che viene consumato a “minestra” con l’associazione di “sparaccieddi”,
che comunemente gli italici chiamano broccoletti o “riso alla
palermitana” dove il “timballo” è riempito da melanzane che la fanno da
padrone, ma il periodo non sempre è favorevole, alcuni ricorrono a
quelle conservate o quelle che oggi vengono coltivate nelle serre.
Il riso a volte e anche l’ingrediente
principale per preparare il “grattò”, un timballo farcito,
ma a Palermo da antica data, lo sformato è costituito da patate bollite
e rese a “purèa” con l’inserimento di caciocavallo o tuma, associate a
insaccati locali.
Anche le patate hanno un ruolo
importante in questa giornata, esse dopo essere preparate a “purèa” con
l’aggiunta di ingredienti poveri si ottengono le “crocchè”,
ma è la patata bollita che solitamente viene comprata dal fruttivendoli
ad essere allestita all’insalata.
La "cuccia"
Tuttavia per questo giorno tutti
aspettano la cuccia, creata e confezionata secondo tradizione,ma di
questa tradizione rimane soltanto l’uso di consumarla da parte dei
palermitani che per “manciunaria sono fatti o tuornu”, la questione
della carestia durante la dominazione spagnola di sicuro non corrisponde
a verità storica, comprata nelle pasticcerie o preparata a casa
acquistando giorni prima il grano sfuso o confezionato da aziende
agroalimentari.
Il nome stesso “cuccia” viene da un
trascinamento del sostantivo “cocciu” cioè chicco, o dal verbo “cucciari”,
vale a dire mangiare un chicco alla volta.
Difatti la sua preparazione è quasi un rito nelle famiglie siciliane e
palermitane in particolare, una antica consuetudine che ci perviene
dall’ormai scomparso mondo contadino che in periodo di mietitura, i
chicci di grano raccolti venivano lessati e mangiati sul posto nei
momenti di pausa.
Una pietanza sicuramente molto antica
che i nostri conquistatori musulmani ci hanno tramandato e, se facessimo
un confronto con alcune città arabe come: Tunisi o città del Cairo dove
è ancora fattibile assaggiare, ancora in data odierna una pietanza Kech
o Kesh, consistente da grano bollito addolcito da latte di pecora o di
cammello associato a vaniglia e cannella.
Bisogna ammollare il frumento per tre giorni in acqua fredda e cambiando
questa continuamente, prima di cucinarlo.
La sera prima della festa, finalmente si metterà il frumento a cuocere
in un tegame, coperto d’acqua con un pizzico appena di sale.
Scolato bene verrà addolcito con crema di ricotta, scaglie di cioccolata
e frutta candita a pezzetti e la scorretta d’arancia o con “mouse” di
cioccolata oppure con una crema di latte, così preparata veniva offerta
a chi fa la devozione alla Santa, ai familiari, ad amici e ai vicini di
casa.
Anticamente quando era semplicemente lessata, le briciole si lasciavano
sui tetti per essere catturati dagli uccellini.
In questa tipo di manicaretto si elogia la qualità di questo cereale: il
frumento ed i suoi derivati che negli antichi cerimonie ancestrale c’è
anche quello della “cuccia”.