Santa Rosalia, le origini del culto

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L'antica Trinacria, l'avventurato triangolo di terra, baluardo ed avamposto tra l'Europa e l'Africa chiamò a sé, nelle varie epoche, popoli d'ogni stirpe e d'ogni regione.

Fenici, greci, cartaginesi, romani, arabi, saraceni, normanni, francesi, spagnoli, si avvicendarono nella Sicilia, come onde lanciate sullo scoglio dal mareggiare dei secoli. Invasori, colonizza tori e dominatori vi lasciarono tutti vestigio del loro passaggio.

Templi, anfiteatri, terme, Basiliche, Cattedrali, reggie, castelli sono i testimoni di civiltà scomparse, di epoche storiche ormai concluse; sono le morte memorie del tempo che fu.

In loro cospetto l'animo si commuove, come dinanzi ad una pietra sepolcrale; ma la pietra è fredda e senza vita.

C'è qualcosa però che ha vinto i secoli e che è arrivato ancora vivo tra noi.

Gli attuali isolani, gli abitanti di Siracusa, di Catania, di Palermo avranno un'idea assai confusa degli antichi gloriosi abitatori, delle remote dinastie di re e di tiranni, e passeranno quasi indifferenti presso ruderi e rovine; ma se voi nominate Agata, Lucia, Rosalia, tanto il dotto quanto l'ignorante si ravviveranno in volto e vi parleranno delle loro Sante come di Esseri viventi, tutelari, benefici e partecipanti alla loro vicenda cittadina e familiare.

Anche in questo senso resta vera la sentenza di Gesù: « Chi dà la sua vita la ritroverà. »

Agata e Lucia offrirono la loro fiorente giovinezza sull'Ara del martirio; e Rosalia pure si offrì vittima volontaria di un'eroica rinuncia.

Sembrerebbe che tutte e tre queste Fanciulle avessero abdicato alla vita; ma come le due Patrizie sarebbero scomparse senza lasciar nessuna traccia se avessero sfuggito il supplizio, così nessuno ricorderebbe oggi la Figlia del conte Sinibaldo se non si fosse resa la fuggitiva dal mondo.

Perciò l'avventurata isola sicula, oltre ad aver conservato il sereno fascino del sole e del mare palpitanti di vita, può ancora gloriarsi, e per sempre, dei suoi tre immarcescibili fiori di santità miracolosamente freschi ed olezzanti, poiché « tutto ciò che è seminato nella carne perisce, quello poi che è seminato nello spirito dura eterno. »

Gl'irsuti uomini del Nord, i Normanni, spinti dal loro istinto nomade, irrequieto e sitibondi di guerra e di conquista, erano approdati dal settentrione dell'Europa alle terre benedette d'Italia. Qui l'incanto del sole, la dolcezza del clima, la bellezza profusa da Dio sulle ridenti rive del Tirreno, avevano calmati i loro bellicosi istinti.

La Religione Cristiana fece il resto; li raggentilì, smorzò la naturale ferocia e l'incamminò per una via di mirabile civiltà. Divennero sensibili alla bellezza ed all'arte, compresero che la vita non è soltanto nell'assalire, nel derubare e nell'uccidere; ma che è sopratutto nella tranquillità dell'ordine e, in una parola, nelle opere di pace.

Le regioni meridionali della nostra Penisola, restarono sotto la loro dominazione ed il loro influsso per diversi secoli, e fu da lì che i Normanni passarono alla Sicilia.

Approdarono da Napoli a Palermo, cacciandone i Saraceni che avevano spadroneggiato sull'isola per tutto un secolo, e cioè dal nono al decimo. Trovarono che l'isola del Sole era un soggiorno adatto alla loro espansione e vi si stabilirono. Un porto largo, spazioso e profondo che aveva dato il nome alla città (erano stati i greci a chiamarlo « panormos » che significa porto universale) presentava grandi possibilità di commercio. Se a questo si aggiunge il clima mitissimo e la prodigiosa fertilità del suolo, si spiega come tutto ciò fosse un persuasivo invito a rimanere.

Rimasero; e lasciarono ivi l'impronta della loro civiltà. Fiorirono in questo benedetto lembo isolano palazzi e Cattedrali, dove l'arte siculo-normanna assurse alle più belle espressioni di gentilezza e di forza.

E fu appunto quando si allineavano le colonne di porfido nei chiostri e fasci di steli marmorei si ergevano a sostenere le ardite volte dei Templi, e Palermo si abbelliva nell'opulenza d'una corte regale, che Iddio pensava a far germogliare in quella terra un « Fiore » che avrebbe avuto nei secoli una vita più palpitante e più duratura di quegli insigni monumenti di pietra.



Nel secolo dodicesimo alla corte normanna vi era un certo conte Sinibaldo, che le antiche cronache dicono discendente da Carlo Magno. Difficile poter controllare le genealogie di quei tempi lontani, tuttavia il motivo per cui questo principe vien nominato ancor oggi non è collegato con la sua discendenza regale, come neppure per causa della moglie Maria Guiscardi, certamente imparentata con la dinastia normanna; ma per un misterioso disegno di Dio che scelse la sua nobile famiglia per trapiantarvi un fiore di Paradiso. Fu un avvenimento preannunciato? Forse è una pia leggenda nata dalla fantasia popolare, ma non possiamo catalogarla senz'altro tra le cose impossibili, poichè il Signore può anche permettere quello che critici arcigni non vorrebbero ammettere e relegano con troppa facilità nel regno delle fiabe, e cioè il prodigioso intervento soprannaturale nelle cose umane.

Narrano dunque le antiche tradizioni che mentre una sera il tramonto accendeva strani bagliori sul mare ed il ciclo s'era fatto di fiamma, parve a re Guglielmo il quale insieme alla regina Margherita contemplava rapito lo spettacolo, che uno Spirito Celeste .si librasse in quello sfolgorio di luce e dicesse: « Guglielmo io ti annuncio che, per volere di Dio, nascerà nella casa di Sinibaldo tuo congiunto, una rosa senza spine. »

Preannunziata o no, la rosa senza spine sbocciò davvero.

Nell'anno 1128 la casa di Sinibaldo fu allietata dal sorriso di una bimba, cui fu posto un nome insolito, ma profondamente significativo: ROSALIA, quasi un connubio di rose e di gigli (rosa-lilia); e davvero che una Rosa per essere senza spine doveva inserirsi ad un giglio, sullo stesso stelo agile ed elevato.

Dell'infanzia e della fanciullezza di Rosalia nulla dice la storia, del resto molto avara di particolari nei riguardi di questa nostra Santa. Giudicando da quanto avvenne in seguito, si può tuttavia benissimo pensare che Rosalia sia stata una bimba che alle grazie di una particolare bellezza, univa quelle di una affascinante bontà.

Varcato il periodo sereno dell'infanzia e, della puerizia, Rosalia si inoltrava già per la via luminosa ma infida, dell'adolescenza quando, fatta damigella d'onore della regina, entrò a corte.

Indubbiamente in simili ambienti non spira aria propizia per fioriture di gigli e di rose. Anche la più santa delle corti (ad eccezione di quella Celeste) ha mefitiche esalazioni mondane. . .

Certo gli occhi pensosi della figlia di Sinibaldo si erano fermati su. quella vanità, tanto da sentirne un brivido di paura.

È vero che nella mistica penombra dei Templi che l'arte normanna andava ornando, o nel silenzio della sua cameretta, Rosalia maturava un progetto non ancora ben definito, nel quale si prospettava un'aspra ascesa in cima a cui dominava un ideale seducente di offerta e di martirio, ma c'era anche vicino a lei, la reggia con tutte le sue attrattive. Una fanciulla non si avventura impunemente nelle sale fastose dove dame e cavalieri danno un fantastico spettacolo di bellezza e di forza.. Non può sfuggire ad un misterioso fermento di passione colei che segue il volteggiare dei focosi destrieri nei tornei, colei che intravede lo sguardo ammirato di paggi e dignitari rivolto alla sua persona. E poi come s'incide profondamente in un giovane cuore, la lode incauta alla bellezza!

Rosalia, questa lode, la sentiva ripetere troppo spesso mentre « benignamente d'umiltà vestita » attraversava i saloni della reggia palermitana. Intimamente agitata, ne provava dispetto e compiacenza.

Perché non avrebbe potuto trionfare? Ma allora il suo proposito?

Frattanto l'attenzione di un nobile della corte, a nome Baldovino, si era fermata su di lei, e presentatosi al padre, l'aveva chiesta in isposa.

La vita chiamava Rosalia col suo canto di sirena, e la visione della Croce rimaneva avvolta dalle nebbie che salgono dal cuore adolescente che sogna. La corte, lo sfarzo, i tornei, i cavalieri chiusi nelle ricche armature, balenar di lance, ondeggiar di cimieri sgargianti, passavano dinanzi allo sguardo della giovinetta, l'invitavano a godere tutto ciò che l'età fiorente e la condizione privilegiata potevano offrirle. La pia fanciulla chiede perplessa allo specchio la conferma delle lodi che la turbano. È vero: occhi profondi e dolci, ovale perfetto del viso dove rose e gigli sembrano darsi convegno, labbra di corallo, candida fronte su cui brilla l'aureola d'oro della chioma bionda...

Ma che avviene?... Sul lucido specchio dai contorni sfocati del bel volto di adolescente che vi si riflette, va prendendo forma sempre più viva un'immagine afflitta e severa; due occhi dolorosi la fissano ed appare una fronte coronata di spine, un volto rigato di sangue... È Gesù sofferente che "sembra dirle: « Dunque mi abbandoni? Son queste le tue promesse? È questo il tuo desiderio di rinuncia? »

Lo specchio scivola dalle mani tremanti di Rosalia, si dileguano per lei i fantasmi di gioia e di trionfi mondani, cade l'insidioso velo delle illusioni e cadono pure le belle treccie d'oro; prima e subitanea offerta della Vergine allo Sposo Divino.

Essa s'inginocchia e mormora: « Gesù hai vinto, sarò tua. »

Quando la figlia di Sinibaldo, dopo la notte dell'offerta decisiva, apparve priva della ricchezza delle sue trecce bionde fu giudicata folle.

Essa però calma e sorridente, come assorta in una misteriosa visione, rispondeva: «Ho sposato Gesù! »

L'eterno Seduttore delle anime generose e grandi aveva vinto.

II conte Baldovino doveva scomparire, e con lui la corte ed il mondo, perché altri erano gli ideali che avevano afferrato il cuore della fanciulla. Essa voleva ormai essere umile come Gesù che, essendo Dio si fece Uomo, ricco divenne povero e disprezzato; che aveva lasciato il Paradiso per salvare l'umanità. Bisognava seguirLo: ma come?

Continuare a restare a corte non si poteva, perché l'idea del sacrificio è inconciliabile con la vita che vi si conduce. Lo abbiamo già detto, i gigli non trovano terreno propizio nelle sale di una reggia. Occorreva dunque fuggire. Dove? "Chi l'avrebbe accolta? Anche qui le memorie storiche non c'informano chiaramente, ma con tutta probabilità Rosalia trovò ricetto presso le Monache Basiliane, di cui esisteva un Monastero non lontano dal suo palazzo.

Così la bella contessina scomparve nell'ampio mantello che la regola prescriveva ed il suo capo già aureolato d'oro, fu avvolto in un velo ruvido ed oscuro. Le disadorne pareti di un chiostro sostituirono le sale sontuose del castello paterno o della reggia, ma a Rosalia troppo bello ancora, e comodo, sembrava quel ritiro, forse pensava: Gesù sul Calvario ebbe per letto una Croce, fu solo lassù ed abbandonato, da tutti. Egli un giorno aveva detto: « Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli i loro nidi, ma il Figlio dell'Uomo non ha dove posare il capo. » Forse Rosalia, il posto meglio adatto alle sue aspirazioni di isolamento lo aveva visto quando, fanciulletta ancora, si era recata a visitare i possessi paterni della Quisquina. C'era lassù una grotta che sembrava fatta al caso suo, una specie di tana o covo di fiere, che forse dava il nome alla regione (Coschin infatti, nella lingua araba significa oscuro). Quell'antro sarebbe stato il suo rifugio dalle intemperie e per la notte, e poi avrebbe avuto, per pregare, il gran tempio dalla immensa cupola azzurra, con l'ardente lampada del sole nei meriggi infuocati, e con lo splendore pacato della luna e delle stelle nelle notti serene. Per il suo povero corpo, onde mantenerlo in quella vita di penitenza, ci sarebbero stati i frutti e le erbe della terra ed anche il pane mendicato della carità. Nulla le mancava: la decisione quindi fu presa e la figlia di Sinibaldo diventò la Romita della grotta della Quisquina.

Qualcuno suppone che la decisione dì Rosalia di rendersi eremita, sia stata determinata dal fatto che nel Monastero delle Basiliane non era tranquilla per causa del padre, della madre e del promesso sposo, che non si sapevano rassegnare a perderla. Questo non è improbabile. Esistono anche tradizioni e leggende secondo le quali Rosalia sarebbe fuggita di casa la vigilia delle nozze e febbrili ricerche si sarebbero allora iniziate onde rintracciarla.

Si narra che un giorno un messo di Sinibaldo (o che almeno si era presentato come tale) si inerpicò alla Quisquina e con astute parole suadenti, tentò di convincere la fanciulla ad abbandonare quella solitudine almeno per conforto del padre che piangeva sconsolato nella casa vuota. Rosalia prese in mano allora la Croce testimone delle sue penitenze e delle sue preghiere e si attaccò ad essa come ad un'ancora di salvezza. Alla vista della Croce il messo proruppe in bestemmie, che rivelarono la sua identità diabolica, mentre l'intervento di un Angelo rafforzò Rosalia nel suo generoso proposito e mise in fuga il tentatore.

Anche se di questo fatto non abbiamo documentazioni tali da poter soddisfare tutte le esigenze della moderna critica, lo possiamo tuttavia benissimo ammettere, pensando che Satana, il quale non lasciò tranquilli gli antichi eremiti della Tebaide, in previsione del bene che stava per derivare da quella vita santa, abbia tentato ogni mezzo per fiaccare la ferma risoluzione della principessina, sfuggita alle lusinghe del mondo.

L'anima di Rosalia si librava pertanto verso i più alti vertici della contemplazione. Iddio le parlava con la voce del vento ed il canto degli uccelli, testimoni delle sue estasi; le faceva intravedere un bagliore della sua magnificenza attraverso il succedersi delle aurore e dei tramonti, ma più direttamente e profondamente le conquistava il cuore con i ripetuti inviti della sua Carità. Se qualcuno fosse tentato di supporre che l'anacoreta sia un egoista fattosi misantropo per sfuggire al contatto degli uomini, nulla comprenderebbe della meravigliosa fecondità dell'Amore Divino. L'eremita santo non cerca la solitudine perchè odii gli uomini; nessuno anzi vuole il loro vero bene più e meglio di lui, ma perchè per mezzo della sua preghiera, il Signore riversi abbondanti grazie su coloro che restano nell'umano consorzio, a combattere la dura ed estenuante battaglia dell'esistenza, sempre in procinto ed in pericolo di perdersi. Dalla meditazione della infinita Sapienza e Bontà di Dio, i pii solitari attingono tesori di saggezza e prudenza ignoti a coloro che affannosamente le cercano sui libri. Per questo sovente l'ascosa dimora degli eremiti fu invasa dai secolari, che vi si recarono per ricevere opportuni e ben ponderati consigli in negozi anche d'ordine temporale, e chiedere ad essi il contributo efficace del l'orazione necessario al buon successo delle loro imprese.
Non stupisce dunque che si ricorresse anche a S.Rosalia.

Una volta scoperto il suo rifugio s'iniziò una specie di pellegrinaggio di quanti erano bisognosi di aiuto morale, sicchè là dove regnava solenne il silenzio, rotto soltanto dal canto del vento e dal gorgheggio degli uccelli, giunse il chiaccherio disturbatore degli uomini.

Se si fosse trattato di soccorrere il prossimo e di fare del bene, Rosalia sarebbe rimasta; ma la sua cautela vide in questo affluire di gente un pericolo, temette che il mondo volesse riafferrarla e si allontanò.

Un giorno la grotta della Quisquina fu trovata vuota: la Vergine prudente era scomparsa.

Si eleva presso Palermo un monte chiamato dai greci « Ercta » dagli arabi « Gebelgrin » e dagli isolani « Pellegrino » che certo allora più di oggi aveva un aspetto orrido e selvaggio e possedeva, nascosto tra un groviglio di cespugli ed arbusti selvatici una grotta scura e inospitale. Neppure le bestie vi cercavano ricetto, a causa del perenne stillicidio. Rosalia trovò invece qui l'ambita solitudine ed il sicuro rifugio, atto a soddisfare il suo ardente desiderio di silenzio e di unione con Dio.

Da quell'altezza si scorgeva il lontano profilo della città, e quando gli occhi pensosi della Vergine Palermitana indugiavano sulla massa biancheggiante di case, si riempivano di lacrime perché una gran pena le trafiggeva il cuore.

Quanta follia e quanto peccato laggiù!...

Superbia, lussuria, avarizia, tutti i vizi della misera umanità sembravano levarsi colla nebbia della sera, come da una velenosa palude, verso il cielo ed i suoi concittadini, come irrequieti fantasmi aggirarsi in quell'opaco grigiore imbrattati di turpitudine.

A Rosalia pareva di essere con Gesù nell'Orto degli Ulivi e sul Calvario, perciò più ardente si faceva l'offerta della sua giovinezza per placare la Giustizia Divina, più aspri e prolungati divenivano i suoi digiuni, più crudeli le penitenze, più insistenti le invocazioni alla Misericordia. Essa voleva contribuire al riscatto dei suoi simili facendosi la piccola Crocefissa del Monte Pellegrino, come il Suo Diletto Signore lo era stato sul Calvario.

Quanti anni passarono così? Non Io sappiamo precisamente. Le antiche cronache parlano dell'anno 1165 come della data della sua partenza dall'esilio per la Patria. Se ciò è esatto, Rosalia avrebbe avuto allora circa trent'anni. Probabilmente Dio volle cogliere presto quel fiore olezzante di santità, che si era immolato come vittima di espiazione e d'amore. D'altra parte anche la fibra più forte avrebbe piegato rapidamente sotto il peso delle aspre penitenze, e le cause naturali furono per tal modo alleate del disegno Divino di trasferire una cosi bell'anima dalla terra al Cielo.

Allorchè sul Monte Pellegrino si inerpicarono i devoti a chiedere, come di consueto, preghiere e consigli, trovarono la Santa composta nella serena pace della morte.

Può darsi che un Angelo le avesse annunziato il giorno del trapasso, perchè lo Sposo Divino può benissimo aver inviato un suo Messaggero per invitarLa alle nozze eterne. Certo gli Angeli avranno aleggiato attorno alla grotta solitaria per raccogliere l'anima eletta della Romita e scortarla verso gli splendori eterni, mentre una lieve pioggia di gigli e di rose sarà scesa sulla salma verginale. Rosalia, emaciata ma bella, si era addormentata nel Signore la sera del 4 Settembre, il capo poggiato al duro sasso, una mano sotto la guancia e l'altra posata sopra il cuore, come ad offrirne a Dio l'ultimo palpito. II popolo la proclamò Santa prima di ogni processo canonico, riscontrando nell'austerità della sua vita di martirio la prova esauriente di una eroica virtù. Si pellegrinò con devozione ai luoghi resi venerabili dalla sua dimora, e furono presto erette anche Chiese in onore di Colei che i palermitani chiameranno semplicemente ed affettuosamente la « SANTUZZA. »

Già in alcuni antichi formulari di preci in uso nella Chiesa palermitana, troviamo inserito il nome di Rosalia Santa; ben presto si iniziò la celebrazione della sua festa il 4 Settembre, giorno del suo ingresso alla Gloria. Erano sorti in quel periodo, miracoli dell'arte siculo-normanna, il Duomo di Monreale e quello di Palermo con altre splendide Basiliche e lì, tra lo scintillio dei marmi ed il sorriso dell'arte che effigiava sui muri i Santi dell'antichità, fu posta in onore anche l'immagine della Santa Romita del Monte Pellegrino. Una tavola bizantina che si fa risalire al 1185, poco tempo quindi dopo la morte della Santa, e che si conserva nella monumentale Chiesa della Martorana, raffigura Rosalia insieme a S. Oliva, S. Elia e S. Venera.

Dal che risalta che il popolo non indugiò ad onorare la sua Santa.

Le pendici scoscese del Monte Pellegrino, dopo la morte della Santa, furono abitate da pii solitari i quali, attratti dal Suo mirabile esempio conducevan colà vita da anacoreti. Essi venivano chiamati Romiti di S. Rosalia.

Qualcuno di essi sempre si trovò lassù e, con l'andar del tempo, essendo aumentati di numero formarono una Comunità che fu approvata poi dal Papa Giulio III sotto la regola di S. Francesco ed ebbe origine così una delle tante riforme dell'Ordine Serafico chiamato di S. Rosalia e del Monte Pellegrino.

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