Sulla dorsale del Monte Pellegrino la Grotta
della Santa fu mèta per molti anni di
pellegrinaggi devoti, ed il 4 Settembre
specialmente folle di popolani si partivano da
Palermo per recarsi colà ad onorare la Vergine
Romita, che dormiva serena nel suo antro, dove
l'aveva baciata la morte. Tuttavia a poco a poco
l'entusiasmo scemò, tanto che si arrivò perfino
a dimenticare il luogo dove si trovavano i Suoi
resti mortali, un tempo sì onorati.
Quante vicende erano passate sull'Isola del
Sole, e quante sulla ridente Palermo! Essa aveva
toccato i vertici di una prosperità quasi
leggendaria, ma conobbe pure in seguito i tristi
giorni della decadenza e dell'abbandono.
Alla dominazione normanna, che aveva fatto di
Palermo un centro artistico e commerciale di
grandissima importanza, era subentrata la
dominazione angioina che aveva iniziato la
decadenza, intensificatasi sotto il governo
spagnolo, sicché anche in queste vicende
politiche va cercata una spiegazione ed una
scusa al raffreddamento della devozione dei
palermitani verso la loro Santa. Si continuò, è
vero, a celebrare ogni anno la festa di
S.Rosalia perché era segnata sul calendario, ma
lo slancio dei primi anni si era affievolito,
negletta e non più frequentata restò la Grotta
del Monte Pellegrino.
Dovette passare un lungo volgere di secoli,
prima che il culto primitivo reso alla Vergine
Palermitana ricomparisse con rinnovato
splendore.
Ecco come.
Nell'ospedale di Palermo tra i degenti,
nell'autunno del 1623, si trova una certa
Gerolama Gatto. Ammalata seriamente ha già
ricevuto gli ultimi conforti della Religione;
stesa sul suo lettuccio è in preda ad una febbre
altissima, che le impedisce di dormire.
È scesa la notte e le lampade ad olio della
lunga corsia palpitano nell'oscurità come
immobili lucciole diffondendo attorno uno
scialbo chiarore. Le ore gocciano lente per
l'ammalata ognora più sofferente, mentre le
lampade danno guizzi rossastri dai lucignoli
fattisi fumicosi.
La donna, vagando con gli occhi stanchi per
la corsia, scorge all'improvviso una figura
bianca muoversi lievemente tra i letti ed
avvicinarsi alle lucerne per ravvivarle. È una
Fanciulla, che le appare bellissima nel candore
della sua veste. Le si avvicina, le sfiora con
la mano le labbra riarse dalla sete, e
dolcemente le sussurra: « Non temere; se fai
voto di recarti al Monte Pellegrino, subito
guarirai ». La visione scompare lasciando
all'inferma, che aveva conosciuto esser la
bianca fanciulla non altri che S.Rosalia, un
indicibile conforto, riaccendendo in lei quella
speranza che stava per spegnersi. Il voto è
fatto, e Gerolama Gatto, dopo poche ore, lascia
guarita l'ospedale.
Però non si dà eccessiva cura di portarsi al
Romitorio. Viene in seguito colpita dalla febbre
quartana, ma nonostante dovesse vedere nella
nuova malattia un richiamo all'adempimento della
sua promessa, trascura ancora l'obbligo.
Passa così l'inverno, passa la primavera ed
arriva la Pentecoste: del 1624, che cadeva
quell'anno il 26 Maggio.
Con tale solennità arriva anche, finalmente,
la decisione della Gatto di recarsi a sciogliere
il voto.
A tale scopo parte da Palermo in compagnia di
due sue amiche, Francesca Anfuso e Giacomina
Amato.
Compiute le sue devozioni, la Gatto si
accosta alla Grotta dove S. Rosalia visse
mortificata ed orante e beve l'acqua della
fontana che zampilla in quei pressi. L'invade
frattanto un piacevole senso di benessere, si
sente libera dalla fastidiosa febbre che da
lungo la tormentava, un sereno torpore la prende
e di lì a poco si addormenta.
Nel sogno vede una maestosa e raggiante
figura di Donna con un Bambino in braccio, nella
quale ravvisa la Vergine Santissima, da cui ode
queste parole: « Ora che hai compiuto il voto
avrai la salute ». In quell'istante appare anche
una Religiosa in bianche vesti che le indica
precisamente ove giacciono le Reliquie di S.
Rosalia.
Appena risvegliata la donna, in preda ad una
gran commozione, si affretta a riferire ai Padri
del Convento vicino il suo sogno che, messo in
relazione con la riacquistata salute, appare ad
essi come un segno della Volontà Divina ed una
preziosa traccia da seguire senza indugio. I
lavori si cominciarono subito.
La cronaca ci ha tramandato i nomi degli
avventurati scavatori: Vito Amato, marito di una
delle compagne della Gatto; Giacomo Genovese e
Giovanni Tarantino, ai quali si associarono
quattro Religiosi del Convento.
Si procedette con cautela e costanza. Gli
scavi iniziati il 29 Maggio proseguirono fino il
15 Luglio, senza tuttavia che in questo primo
periodo dessero risultati positivi. La terra
veniva tratta fuori dalla Grotta ed esaminata
con attenzione, ma era impossibile trovarvi
traccia di ossa umane. S'incominciò allora a
dubitare, e se non fosse stata l'insistenza
della Gatto, quasi si sarebbe abbandonata
l'impresa, assegnando ad illusione le asserite
visioni e indicazioni. Tuttavia ancora si
continuò a scavare fino a che, alla profondità
di quindici palmi (circa quattro metri), si
trovò un masso lungo sei palmi e largo tre che
ostruiva il lavoro di sterro. Già si stava per
mandare in frantumi il masso incontrato quando
apparve, da un'apertura praticatasi, un teschio.
Si sospese il lavoro certi di trovarsi dinanzi
alle ricercate Reliquie.
Mentre il masso veniva estratto e portato
alla luce, si spandeva nella Grotta e tutto
intorno ad essa un soave profumo.
Per i felici scavatori non v'era dubbio che
quel masso racchiudesse, come in un scrigno, i
resti preziosi della « Santuzza »; ma perché
tutti fossero convinti e potessero venire
onorati occorreva una dichiarazione autorevole.
Informato il Viceré di Palermo, che era
allora il Principe Filiberto, figlio del Duca di
Savoia, questi ne parlò all'Arcivescovo
Cardinale Giannettino Doria, discendente di una
delle più illustri famiglie genovesi.
Il piissimo Cardinale che si era adoperato
per ravvivare la pietà dei palermitani, onorando
i Santi che a Palermo erano vissuti, quali Santa
Ninfa, S.Mamiliano, i 24 Martiri Palermitani, i
Santi Pontefici Agatone e Sergio, S.Filippo
Diacono e S.Oliva, spiegò tutto il suo zelo onde
fosse debitamente riconosciuta ed illustrata
anche S. Rosalia, che doveva essere tenuta dal
popolo di Palermo come un fulgido esempio ed un
potente ausilio.
Ed è davvero interessante il rilevare la cura
posta da questo grande Arcivescovo,
nell'accertarsi che i resti mortali trovati sul
Monte Pellegrino fossero realmente le venerabili
Reliquie della Santa.
Fatto un sopralluogo da apposita Commissione,
il masso venne trasportato nella Cappella
privata del Cardinale Arcivescovo, ed ivi
conservato. Intanto un'altra Commissione stava
esaminando i numerosi miracoli, più di trecento,
che venivano attribuiti all'intercessione della
Santa Romita.
Frattanto il Cardinale diede incarico per la
ricognizione delle S.Reliquie a uomini di
scienza, anzi a luminari della scienza medica,
personaggi molto autorevoli anche per le cariche
che ricoprivano. Si trattava infatti del
protomedico generale della Sicilia Giuseppe
Pizzuto, del protomedico della flotta,
Gianfranco Giacchetti, e del protomedico della
città, Francesco Guerrieri, nonché di altri tre
dottori: Gerolamo Spuces, Erasmo Solati e
Lorenzo Di Natale.
Senonché le loro conclusioni furono
addirittura sconcertanti poiché, essendo stata
eseguita la perizia di notte, per maggior
segretezza e con luce insufficiente, si erano
raggiunti dei risultati affatto negativi. I
dottori sentenziarono che quelle ossa potevano
appartenere a più corpi e che i tre crani
proposti alla loro osservazione, sia per ragione
delle proporzioni anormali, sia per la loro
struttura, non potevano dirsi di una donna.
Questo era un colpo mortale per le speranze
tanto vagheggiate.
Il Cardinale turbato e addolorato consulta il
suo Vicario Generale Francesco della Riva che
condivide il dispiacere del suo amato
Arcivescovo. Che fare? Si decide di udire
l'opinione dei Padri della Compagnia di Gesù. Il
Vicario Generale si reca dal P. Giordano Cascini,
che era allora Maestro dei Novizi,
comunicandogli il desolante verdetto dei
dottori. P. Cascini non si sconcerta, affermando
che avrebbe voluto esaminare, assieme ad alcuni
Padri della Compagnia, il sacro deposito sul
quale i medici si erano pronunziati
sfavorevolmente e, confidando nell'aiuto di Dio,
si sarebbe fatta intera luce sui resti mortali
oggetto di controversia. Della stessa opinione
era anche un altro dotto Teologo pure gesuita,
sicché il buon Vicario Generale tornò dal suo
Arcivescovo col cuore aperto alla speranza.
Il Cardinale Doria nominò allora un'altra
Commissione di cui facevano parte: il P.
Girolamo Tagliavia, Proposito della Casa
Professa, il P. Giordano Cascini, Rettore e
Maestro dei Novizi, il P. Giuseppe d'Agostino,
Prefetto degli studi nel Collegio di Palermo e
il P. Mario Dominici, direttore della
Congregazione dei Mortificati o dei trentatré e
di quella degli operai nel Gesù di Palermo.
Appena entrati là dove si conservavano le
Reliquie, i Padri presero ad esaminare i tre
cranii; primo si offerse loro il più grande, che
i medici dicevano convenire alla statura di un
gigante. Soccorsi dalla luce divina, si avvidero
subito esser quello un cranio di proporzioni
ordinarie, cinto però di un mirabile strato di
pietra lucente venutosi formando col lento
lavorio di stillicidi arenosi e depositi
calcarei che lo avevano preservato dalle
ingiurie del tempo e ne avevano accresciuto il
volume tanto da ridurlo ad un capo gigantesco.
Lieti della scoperta esaminarono i due altri e
non durarono fatica a riconoscere nel secondo la
natura testacea e a dichiarare quello non essere
altro che un vaso, un orciuolo di terracotta, e
ciò si constatò meglio quando ne staccarono un
pezzo. Il terzo poi il quale era parso ai periti
più regolare, era un semplice ciottolone
arrotondato, somigliante a quelli, che
s'incontrano nelle spiagge del mare o nel letto
dei fiumi o dei torrenti. Scalfìto infatti dallo
scalpello, a colpi replicati, mostrò la sua
natura silicea e fu messo da parte. Tutto ben
considerato e ponderato, i quattro Padri e il
Vicario Generale conclusero che quelle ossa
erano di un corpo umano, che appartenevano ad un
solo corpo e non erano frammenti di altre ossa,
che pareva chiaro esser quelle ossa di una donna
anziché di un uomo; che finalmente quella
conservazione singolare operatasi per via degli
stillicidi, poteva essere un segno
soprannaturale.
Il giudizio dei Padri, riferito seduta stante
al Cardinale Arcivescovo, gli arrecò grande
allegrezza. Egli adunò quel giorno stesso i
periti, li esortò ad esaminare meglio quei resti
mortali, e a dare su di essi la loro sentenza
sotto la fede del giuramento.
I medici, alla vista del Sacro Deposito,
esaminato ora sotto altra luce, rimasero fuori
di sé per lo stupore; appena potevano credere
essere quelle le medesime ossa da loro studiate
di nottetempo. Ne ammiravano il candore, ne
osservavano le proporzioni che sì bene si
addicevano alla statura di una donna, ne
esaltavano la meravigliosa conservazione e,
lodando la perizia fatta dai Padri, si dicevano
pronti a sottoscriverla senz'altra discussione.
Ma piacque al Signor Cardinale assodare
meglio l'autenticità delle Reliquie e convocò
un'altra adunanza alla quale, oltre ai dottori
ed ai Padri della Compagnia di Gesù, furono
invitati a pronunziarsi cinque Religiosi dei più
pii e più dotti dei vari Ordini Regolari. Tutti
quanti, dopo maturo esame, unanimemente e per
ordine, si sottoscrissero con la formula
consacrata negli atti « Habemus evidentiam
credibilitatis » (Abbiamo l'evidenza della
credibilità) dichiarando: « Le ossa ritenute di
S.Rosalia sono ossa umane e nella loro
configurazione e dimensioni si può arguire che
appartennero ad un corpo femminile. Non sono
pietrificate, ma incorrotte e diverse per il
loro stato di conservazione e bellezza, da tutte
le altre ossa trovate nella Grotta e sul Monte
Pellegrino ».
Questo avveniva il giorno 11 Febbraio 1625 ed
il 23 seguente « convocata la nobiltà e i
canonici, il Cardinale, Giannettino Doria,
conforme ai sacri canoni e riti approvando
quello essere il Corpo della Santa Vergine
Rosalia, consegnò quel prezioso tesoro al Senato
Palermitano, con atto solenne, e cioè a D.
Nicolo Branciforte, principe di Leonforte, conte
di Raccuia, Pretore; Mariano Agliata e Spadafora,
D. Ludovico Spadafora, Diego Blasco, Tomaso
Cascini, D. Francesco Requesens Barone di S.
Giacomo, D. Pietro Settimo, Senatori, acciocchè
fosse insieme in mano della Città di Palermo e
della Chiesa Cattedrale con ogni diligenza
custodito ». Così ci riferisce il P. Giordano
Cascini, uno dei primi biografi della Santa e
membro della Commissione per la ricognizione
delle Reliquie.
I numerosi miracoli attribuiti
all'intercessione di S. Rosalia e le altre
circostanze facevano supporre, con una certa
sicurezza, che quei gloriosi resti dovevano
proprio considerarsi le famose e ricercate
Reliquie, ma era nei disegni di Dio un fatto
decisivo che avrebbe dissipato tutte le
incertezze ed annientato tutti i dubbi.
Già altre volte si era tentato il ricupero delle
Reliquie della Santa Romita; ma nulla si era
concluso di positivo. Le cronache del 1500
parlano di una pia donna che aveva scelto per
luogo del suo eremitaggio il Monte Pellegrino,
con l'intenzione di trovare le ossa di S.Rosalia
di cui voleva imitare le eroiche virtù; ma, nei
venticinque anni che passò lassù, nulla le era
stato possibile trovare.
Non più fortunato, nelle ricerche, fu un
certo P. Benedetto, Superiore del Convento del
Monte Pellegrino. A lui apparve S.Rosalia e lo
invitò a desistere dall'impresa, dovendo il
ritrovamento delle sue Relique essere collegato
con un avvenimento straordinario, che avrebbe
portato un gran beneficio alla città di Palermo.
E fu proprio così.
Mentre si scavava nella grotta del Monte
Pellegrino il misterioso masso che raccoglieva
il corpo della Santa e si svolgevano i lavori
delle commissioni, si andava addensando su
Palermo una tremenda sciagura: la peste.
Da qual parte arrivò? Si incolparono alcune
poche robe inquinate, appartenenti a cristiani
riscattati dalla schiavitù dei mori ed arrivati
a Trapani su di un galeone proveniente dalla
Barberia; essi avrebbero così inconsapevolmente
portato con la libertà, che era un bene per
loro, uno dei più gravi malanni alla loro
patria.
Per questa o per altra via la peste giunse al
bel lido siculo e si diffuse rapidamente
seminando stragi.
In tempi in cui le misure igieniche erano
pressoché ignote, non fa meraviglia che la
terribile epidemia prendesse uno sviluppo
impressionante in Palermo ed altrove; a diverse
riprese anzi contaminò un po' l'Italia intera,
operando sinistramente, quale laboriosa ministra
di morte, in tutte le regioni della nostra
Penisola.
Nel 1630 la peste funestò Milano, e sarà
descritta due secoli dopo dall'immortale Manzoni.
In quell'anno, il 1624, Palermo si andava
trasformando in un immenso lazzaretto per
diventare poi un enorme cimitero; laddove prima
pulsava irrompente la vita, dominava ora da
padrona la morte.
Restava ancora all'isola la limpidezza del
cielo e del mare, la miracolosa feracità del
suolo; la cornice era tuttora meravigliosa e non
cambiava, ma racchiudeva una scena macabra di
malattia, di pianto e di lutto.
Le pubbliche calamità sono il collaudo della
vera grandezza degli uomini. Se c'è un momento
in cui si deve assistere al trionfo della
carità, questo momento è precisamente quello del
massimo bisogno e della sciagura.
Sei anni dopo, a Milano, il Card. Federico
Borromeo darà prova stupenda della sua carità;
ma non meno grandioso spettacolo di bontà
soccorrevole aveva dato il grande Arcivescovo di
Palermo Giannettino Doria.
Non appena egli ebbe notizia dell'apparire e
del serpeggiare del morbo, si prodigò in ogni
modo per arginare e mitigarne i micidiali
effetti, e portò ai colpiti il suo sollievo
materiale e spirituale. Accanto agli appestati,
come sempre e come dovunque, montarono la
guardia Sacerdoti e Religiosi, pagando un forte
contributo di vittime al contagio. L'esempio
veniva dal Pastore della Diocesi che non si
risparmiava davvero, consigliando, confortando,
incoraggiando tutti.
Ma occorreva soprattutto propiziare la Divina
Giustizia affinché fosse allontanato il tremendo
flagello, e si pensò a pubbliche preghiere.
Quando si sta male si ricorre alla Mamma, ciò
che fece la città di Palermo ricorrendo alla
Vergine Immacolata, alla quale si era rivolta
già nel 1570 ed era stata liberata dalla peste.
Per riconoscenza fu offerta allora al Santuario
di Loreto una raffigurazione in argento della
città. Si trattava perciò adesso di fare a Lei
un nuovo fiducioso ricorso onde scongiurare la
grave calamità, e lo si fece.
Era il giorno dell'Assunta di quell'anno 1624
e nella Cattedrale si diedero convegno Autorità
e popolo, tutti obbligandosi con giuramento ad
osservare il digiuno nella vigilia della festa
dell'Immacolata ed a difendere il privilegio del
Concepimento Immacolato di Maria fino
all'effusione del sangue. A questo si aggiunse
un altro voto, quello cioè di proclamare Santa
Rosalia Patrona di Palermo, e di tenerne in
grande venerazione le Reliquie, qualora di esse
fosse stato fatto il decisivo riconoscimento.
La festa di S. Rosalia fu celebrata quell'anno
con maggiore solennità del solito. Tuttavia non
si notò nella salute pubblica alcun
miglioramento, e la peste continuò
inesorabilmente a mietere vittime.
A che pro allora si era pregato e si erano
fatte promesse? Era stata dunque inutile
l'ardente invocazione di tutto un popolo?
Pertanto si andava diffondendo in città come
un senso di stanchezza e di scoraggiamento,
quando avvenne un fatto strano che determinò il
trionfo della Santa del Monte Pellegrino e fornì
la prova dell'autenticità delle sue Reliquie.
Certo Vincenzo Bonelli aveva avuto la moglie
giovanissima uccisa dalla peste, ma voleva
sottrarla al seppellimento frettoloso che veniva
eseguito collettivamente per tutti i cadaveri
dei colpiti dal morbo. Onde la salma della sua
donna fosse posta in terra benedetta, portata
via con tutta la solennità possibile e
contraddistinta da un segno di riconoscimento,
denunciò la morte della moglie dovuta a malore
improvviso. Scopertosi l'inganno il povero
Bonelli, oltre a non raggiungere lo scopo,
ricevette l'ingiunzione di restare chiuso in
casa, pena la morte.
Il pover'uomo però non resistette a lungo
alla reclusione forzata e, anche nell'intento di
sottrarsi ai suoi tristi pensieri, trovò il modo
di eludere ogni vigilanza fuggendo nottetempo,
sotto le spoglie di cacciatore, sul Monte
Pellegrino.
Mentre girovagava pei sentieri della montagna
alla svolta detta della Scala, vide ad un tratto
una fanciulla in abito da eremita che lo guidò
alla Grotta di S. Rosalia, assicurandolo che
proprio lì aveva vissuto, pregato ed era morta
Colei che i palermitani chiamavano « la Santuzza
->>.
Il finto cacciatore, incantato dalla visione,
s'azzardò a chiedere:
— Chi sei tu?
— Sono Rosalia. —
Il poveretto cadde in ginocchio e, fattosi
ardito, parlò della peste che non accennava a
finire e della fiducia che il popolo aveva posto
nella sua protezione, ma che adesso se ne stava
dubitoso constatando che, nonostante le
suppliche ed i voti, nulla si era ancora
ottenuto.
S.Rosalia confortò il Bonelli, predicendo che
la peste sarebbe presto cessata; ma che egli ne
sarebbe stato una delle ultime vittime; avrebbe
però avuto tempo di confessarsi e comunicarsi
per mettere a posto l'anima sua. Gli ingiunse
poi di andare in città a dire al Cardinale
Arcivescovo che non dubitasse più
dell'autenticità delle ossa rinvenute sul Monte
Pellegrino. La prova di ciò sarebbe stata che
quando esse fossero state portate in processione
la peste sarebbe cessata.
A tutta prima il Bonelli non ebbe difficoltà
a promettere, ma quanto a mantenere si trovò in
seri impicci, perché andare a fare l'ambasciata
equivaleva rimetterci la testa rendendosi, per
tal modo, reo confesso di patente infrazione
alle disposizioni che lo riguardavano. Perciò,
tornato a casa sua, non disse nulla a nessuno.
La predizione però non tardò ad avverarsi,
poiché la peste lo colpì.
Un Sacerdote, certo Pietro Monaco, accorse al
suo letto, gli amministrò gli ultimi Sacramenti,
e ricevuta la comunicazione del Bonelli morente
circa la visione avuta, si affrettò a darne
notizia al Cardinale Doria. Questi, senza
frapporre indugio, mandò due Padri Cappuccini a
far da testimoni auricolari a quanto il Bonelli
raccontava. Il moribondo davanti ad essi affermò
di nuovo, con giuramento, la verità di quanto
aveva asserito, ed il saggio Cardinale vide in
ciò un segno della Volontà di Dio per la
glorificazione della sua Serva fedele. E come
farà il Cardinale Federico a Milano con il Corpo
di S. Carlo Borromeo, anche il Cardinale
Giannettino Doria onorerà i Resti mortali della
Santa Patrona.
In un'urna improvvisata fece pertanto
raccogliere le ossa ritrovate nella Grotta e le
espose alla venerazione dei fedeli nella
Cattedrale, mentre si andava preparando alle
Reliquie un degno trionfo.
Quello che i palermitani prepararono in quei
giorni per la loro Santa ha dell'incredibile.
Il senso di grandiosità caratteristico del
seicento, in questa manifestazione si esprime
appieno, tenuto pure conto delle circostanze
tutt'altro che favorevoli a festeggiamenti di
qualunque genere. Stupisce dunque che mentre il
morbo continuava ad infierire (e perciò le
preoccupazioni dovevano essere per tutti assai
gravi) vi siano stati voglia e modo di
provvedere a cose adatte a tempi meno
calamitosi.
I mercanti, che in una città di movimento e
di commercio non potevano davvero mancare, ed
anzi in certo modo la presidiavano con i loro
fondachi disposti nelle zone denominate
Catalogna, Firenze, Genova e Napoli, provvidero
con munificenza alla costruzione di quattro
giganteschi archi di trionfo.
Nel bel mezzo di Palermo il Senato ne fece
erigere un altro di mole imponente. Sembrava che
fosse stato trasportato da qualche solitario
colle, dell'isola un tempio classico, con i suoi
quarantotto ordini di colonne. Esso venne ornato
con trentasei statue di Santi, fra le quali
dominava quella di Santa Rosalia.
Strade, finestre, balconi, furono pavesati di
drappi e addobbi, in una fantasmagorica varietà
di colori.
In capo alle strade principali sorsero
trentasei altari, ai quali si lavorò con
attività febbrile, ed una volta costruiti furono
abbelliti di fiori e corredati di vasi
d'argento.
Dalle celle campanarie delle torri cittadine
irruppe, nei tre giorni precedenti la grandiosa
processione, il rombo solenne dei sacri bronzi.
Alla sera la città si illuminò di
coreografiche ghirlande di lumi e di fuochi; per
questa illuminazione occorsero 100.000 scudi
d'oro, cifra davvero iperbolica per ogni tempo,
non solo per quello.
Sembra di vedere la smorfia di qualcuno che
avrà brontolato: «Che spesa esagerata!, sarebbe
stato più opportuno devolvere tale somma per
misure d'igiene e per sollievo degli appestati
nei lazzaretti.»
Noi non discutiamo, ma ci soccorre il
pensiero di un altro che fece un'osservazione
simile in analoga circostanza, cioè quando la
peccatrice di Magdala versò il preziosissimo
unguento sul capo di Gesù. Giuda si ebbe allora
i rimbrotti del Maestro, e sappiamo quanto lo
zelo del discepolo traditore fosse interessato.
Il nostro modo di concepire l'economia non
sempre coincide con la vera saggezza e con i
disegni di Dio. Difatti, in questo caso, la
risposta alle eventuali disapprovazioni la diede
il Signore, che per intercessione di Santa
Rosalia fece cessare il tremendo contagio.
Per dimostrare poi che non si dava solo
importanza alla esteriorità dei festeggiamenti,
si digiunò dal popolo nel giorno precedente al
grande trionfo, e la Cattedrale fu continuamente
affollata di devoti in preghiera.
Arrivò infine il 7 Giugno dell'anno di grazia
1626 e Palermo visse una delle sue giornate più
memorabili.
Un interminabile corteo, partendo dalla
Cattedrale si snodava per le vie, composto di
ben 98 Società e Congregazioni, nonché da tutta
la popolazione cittadina.
L'arca che conteneva il prezioso deposito
delle Reliquie, procedeva ondeggiando tra la
folla, quasi cullata dal canto di duecento
fanciulle biancovestite che la circondavano.
Mani si alzavano supplichevoli, grida,
invocazioni, preghiere, acclamazioni
accompagnavano il passaggio trionfale della
Santa Romita che ritornava per le vie della sua
città recando, con la sua protezione, il dono
della salvezza.
Nulla, sarebbe sembrato più propizio al
propagarsi dell'epidemia, che la riunione di
tanta folla in una stagione particolarmente
calda; secondo le previsioni umane si sarebbe
dovuto pensare ad un maggior infierire del male
mentre, quasi improvvisamente, il morbo
scomparve.
Il 15 Luglio il Pretore si era recato al
Monte Pellegrino per fare un sopralluogo alla
Grotta e seppe, al suo ritorno, che in quel
giorno nella città non si era verificato nessun
caso di peste. Così terminava la tremenda morìa.
La vita allora riprese di colpo i suoi
diritti, Palermo si rianimò anche nei commerci,
e con rinnovato slancio si strinse riconoscente
attorno all'urna benedetta di S. Rosalia.
Passarono cinque mesi e sebbene la peste
tentasse ancora qualche timida apparizione, dal
giorno dell'indimenticabile trionfo delle
Reliquie si parlò della peste come di un lontano
lugubre ricordo.
Continua con
>La
devozione nel mondo