All’entrata quello che più colpisce sono le preziose decorazioni a
“mischio e tramischio” apparate lungo le pareti dell’unica navata di una
cappella di un ex convento di clausura, rimasta miracolosamente integra
dopo la distruzione del suo annesso convento, dovuta alla bonifica
dell’aria limitrofa in cui successivamente si poté realizzare il
massiccio palazzo di giustizia, opera dovuta al regime fascista.
Gli arabeschi marmi policromi intarsiati secondo un’antica tecnica che
solo le maestranze bizantine riuscivano a creare quell’effetto pittorico
di cui la tradizione a saputo tramandare.
La stessa tecnica d’intarsio la si ritrova nei due altari laterali, dove
i paliotti di marmo sembrano dipinti per impreziosire gli stessi con
area sublime.
Perfezionano il capolavoro ornamentale gli stucchi, colonne, statue e
gli affreschi del tetto che con il pavimento a disegno geometrico
realizzato con tasselli di marmo, crea un elegante effetto stereotipo.
Fondamentalmente il mercato è sempre
stato luogo particolare per la vendita della carne, anticamente nelle
vicinanze esisteva il macello civico detto “bocceria nuova” per la
macellazione di becchi e altri animali, diverse sono le “carnezzerie”
(termine dialettale conseguente alla dominazione spagnola) e non
macellerie come vengono comunemente chiamate, presenti e, le beccherie
“chianche” che vendono carne di castrato tagliata tradizionalmente nella
“chianca” (dal latino "planta"), un grosso ceppo d’albero, da qui la
definizione.
Altro particolare, che stupisce, nel
vedere i quarti di carne appesi al di fuori della bottega, usanza
sopportata, da quella che fu la presenza ebraica in città, per depurare
l’animale del suo sangue, caratteristica è l’esposizione di capretti e
agnelli in determinati giorni prefestivi, completamente privi di pelle
tranne la coda che mantiene il ciuffo che fanno da quinta come sfondo al
negozio.
Interiora e frattaglie, fegati e milze,
testicoli e trippa, testine d’agnello e piedi di porco li vende il
carnezziere, “mussu”, “carcagnuola” e "masciddaru" si possono acquistare
nella bancarella “da Rosone” a porta Carini proprio all’imboccatura
basilare del mercato, due piloni di pietra d’intaglio, comprate dalle
monache del vicino monastero di SanVito nel 1779 per realizzare il loro
belvedere, fanno da scenario al pluricolorato palcoscenico merceologico
fatto di tende dai multicolori, dove il sole a stento riesce a penetrare
e, di grosse lampade accese anche a mezzogiorno e per tutta la
mattinata, e qui che la milza diventa “meusa”, fatta ballare nel grasso
bollente e stipata nel pane e mangiata per strada, e qui che la
melanzana diventa “quaglia” per metamorfosi di parole, volatile vegetale
per l’olio che canta nella padella, un’intricata mano entra in un
paniere avvolto da canovacci per tirare fuori “a frittula” risultato di
una segreta pietanza.
Particolare e ammicante è vedere il
pesce-salato (baccalà) in acqua che sgorga da una specie di rubinetto in
una tinozza stagnata con grossi pezzi di pesce ammollati per depurare il
sale.
Sanno di sale “arrancitusu” i “buatti” di sarde salate e aperte a
portafoglio dalle abili mani del “saliaturi” sopra un tozzo di legno e
diliscati, stessa operazione ripete per l’aringa.