La seicentesca chiesa che si affaccia sul
mercato e sempre stata snobbata dai palermitani ed era definita “a
chiesa rù baccalà”, ma le sue origini sono molto antiche, addirittura
risalgono ad una preesistenza fondata dallo stesso San Gregorio,
utilizzando i lasciti della madre, la palermitana Santa Silvia, la sua
statua lignea staziona sull’altare maggiore dell’unica navata della
contenuta ed aggraziata chiesa.
Successivamente il complesso monastico e
la chiesa vennero strutturati dai normanni per poi passare agli
Agostiniani scalzi di cui ancora sono i detentori.
L’omonima confraternita costituita all’interno del monastero venera il
simulacro ottocentesco di Maria Santissima del Paradiso che festeggia
l’ultima domenica di agosto.
In un’angolo della strada, quasi schivo,
un uomo piccolo, accovacciato come se pregasse, vende il pane che trae
fortuitamente dalle ceste di giunco, a pile, a montagne, a cascate, e “u
pani i Paisi” che certuni avventori preferiscono al pane bianco e
“inciminato” venduto nei forni, il panificio “Morello” quello con
l’insegna liberty per intenderci a piazza Sant’Anna cuore pulsante del
“Capo” dove stanno a vigilare Pietro Nolasco e
la Madonna della Mercede,
ambedue immobilizzati nelle statue di legno, i confrati scelti tra i
bottegai in determinate occasioni diventano portatori di una fede pagana
e scaramantica facendoli rivivere nelle tradizionali processioni.
Il banco nasconde il venditore dietro una
pila che sembra una piramide egizia, tra olive verdi e nere, a fiore,
con sale e senza, moresche e lucenti capperi, insiste affinché il
compratore assaggi la sua merce che porrà con cortesia e soddisfazione.
La vita al mercato inizia molto presto, i mercanti giungono così
mattutini affinché possano piazzare la merce “a rrubba”, ceste,
cassette, cavalletti, ripiani, lastre, banchi sono le prime masserizie
ad essere esposte su di esse verrà riposta la mercanzia con ostentate
presentazioni:”a cuvuni, a barricata, accritta “ o lasciata depositata
all’interno della sua cassetta.
La frutta sistemata e “apparata”, secondo
la loro colorazione ed effluvio: giallo, rosso, arancione, verde, viola,
ecc.
La verdura disposta a parte: zucchine lunghe all’inpiedi, broccoli
(cavolfiore) “stipati” uno sopra l’altro, “sparaceddi” (broccoli),
“tenerumi” (i calli della pianta di zucchine) “stinnicchiati e ammugliati”, melanzane a “munzieddu”, “cacuocculi”(carciofi) a fasce.
Caratteristica palermitana è
l’esposizione dei prezzi, vengono attaccati ad una asticella di legno
con un cartoncino su quale si indicano le cifre, lo zero è sempre
accompagnato con una codina piccola quasi invisibile.
Oltre ad indicare i prezzi nei “pizzica”, si usa scrivere il tipo di
merce rifilata per catturare la percettibilità dell’avventore: uva italia di Pantelleria, pesce locale, sarde vive, pesce spada di Porticello, ecc.
Nel pomeriggio, da una grossa pentola di
rame “quarara” scaturisce del fumo invitante, sono le patate bollite o
le “domestiche” che solo a Palermo i nostri fruttivendoli sanno
apprestare.
Il variopinto
pesce disteso sui banchi di
ghiaccio è accostato amorosamente, illuminato da grandi lampade
e bagnato in continuazione per esaltarne le qualità organolettiche, ma
sono i pesci grandi quelli che contano: tonno e pesce spada, tagliati a
tranci alla vista degli avventori che prediligono il pesce gramo che è
chiamato a supplire con l’immaginazione i piatti opulenti.
Inoltrandosi nel vivo del mercato tra
cortine di modeste edilizie, intervallati da edifici che presentano
particolari architettonici come le ringhiere dei balconi, testimonianza
di un florido artigianato del ferro battuto che all’interno del mercato
avevano le loro officine, rimane qualcosa all’estremo confine della
strada dove si esauriscono le bancarelle del mercato, dove passando si
scorgono gli angusti varchi d’avviluppate vie e cortili.
Il mercato delegato da sempre a remote
attività commerciali e artigiane, nasconde una piccola curiosità
folcloristica e rituale.
L’opera dei pupi trova nel signor Andrea Gulino un abile costruttore di
marionette, nel quartiere trovava un profondo riscontro nei suoi
abitanti con la presenza di antichi teatri ormai scomparsi, la
costruzione dei pupi con la caratteristica corazza a fatto sì che questa
arte venisse trasmessa nella costruzione di armature che le
confraternite utilizzano nelle processioni del Venerdì Santo.