In teoria sono definite «l'insieme di tecniche di
difesa personale, di antica origine orientale, volte a neutralizzare
l'aggressore mediante particolari colpi e movimenti».
O almeno questo è ciò che si può
leggere su un buon vocabolario alla voce arti marziali. Ma non è
così semplice. Perché se si entra in una palestra, più che a un
allenamento sembra di assistere a un rito. Gli atleti non mettono
piede sul parquet prima di aver fatto un mezzo inchino. Poi,
inginocchiati, invocano, quasi in preghiera, energie e
concentrazione, Sfiorano il pavimento con la testa e quindi battono
una sola volta le mani. come in un applauso.
Soltanto allora
ha inizio la lezione. Con il maestro che controlla la posizione dei
piedi, quella delle spalle, l'angolazione del corpo; la corregge con
poche parole mentre gli allievi, che ringraziano con un inchino dopo
ogni richiamo, continuano gli esercizi, Avvolti nel kimono e
stringendo un bastone, che simboleggia una spada, compiono tutti gli
stessi movimenti, quasi fosse una danza. Tramandata da secoli.
• Lotte fredde e lotte calde
Filosofia e
tecnica dì guerra: le arti marziali sono un po' l'una, un po'
l'altra cosa, e possono essere divise in due grandi classi: la lotta
corpo a corpo e il combattimento con colpi sferrati contro
l'avversario. Il corpo a corpo si è sviluppato nei Paesi più freddi,
dove gli abitanti erano molto coperti e di conseguenza abbastanza
impacciati nei movimenti. Cosa che invece, non accadeva nei luoghi
più caldi dove. dati gli abiti più leggeri, era facile eseguire
movimenti rapidi.
Le arti marziali
più conosciute sono quelle orientali anche se non sono le uniche al
mondo: dall'Europa all'Africa ogni Paese ha sviluppato nei secoli le
proprie tecniche di lotta. In Oriente, comunque, tutti i metodi di
combattimento, secondo la leggenda, hanno un'origine identica.
Sarebbero stati inventati da un monaco indiano, Bodhidharma, vissuto
tra il V e il VI secolo dopo Cristo, che dall'India raggiunse in
barca la regione cinese dello Yunnan e si stabilì nel monastero di
Shaolin-si ("giovane foresta"), dove fondò la setta Chan (in
Giappone si chiamerà Zen).
E' a
lui che la tradizione fa risalire la creazione di un metodo di lotta
a mani nude che i monaci utilizzavano per difendersi dagli attacchi
dei banditi e allo stesso tempo per garantirsi una maggiore
concentrazione e forza nei momenti di preghiera.
Dalla Cina le
nozioni del monaco Bodhidharma si diffusero in tutto l'Oriente, e
specialmente in Giappone, tra le classi sociali più alte e tra gli
appartenenti alla casta dei guerrieri.
Quando, nel 1868, con la dinastia Meiji, il Giappone uscì dal
periodo feudale e, nel 1877, fu abolita la casta dei samurai, le
arti marziali si diffusero anche tra il popolo attraverso
dimostrazioni pubbliche organizzate proprio dai samurai.
• II buon maestro
Sebbene non si
debba dimenticare l'importanza dell'area del Sud-est asiatico
(Indonesia, Malesia e India), le arti marziali sviluppatesi in
Giappone e in Cina costituiscono i ceppi principali dai quali si
dirama una serie di tecniche di combattimento che sono andate via
via distinguendosi l'una dall'altra nei vari Paesi dell'area
estremo-orientale. Basti pensare che solo in Cina esistono circa
1500 stili di combattimento, mentre in Giappone ne sono stati
riconosciuti 850: «Un maestro scopre una serie di movimenti a suo
parere abbastanza efficaci e inizia a insegnarli nella sua scuola»,
spiega Claudio
Regoli, studioso di arti marziali e autore di una decina di libri
sull'argomento. «Se lo stile non è basato esclusivamente sulle
caratteristiche fisiche del maestro, sopravvive e si tramanda». E'
così, per esempio, che il karatè, forse l'arte marziale più
praticata nel mondo, nato dal kung-fu cinese sull'isola nipponica di
Okinawa, ha poi influenzato gli stili della Corea, tra i quali il
tae-kwon-do.
•Anche in Italia ce n'è una
Sono soprattutto le arti marziali orientali a essere sopravvissute
nel corso dei secoli. Salvo rare eccezioni, nessuna di queste
tradizioni è riuscita a mantenersi in Europa, che pure poteva
vantare tecniche di combattimento legate allo
spirito cavalleresco e, per alcuni versi, molto simili alle arti
marziali orientali. Una eccezione è la boxe francese, o savate,
sviluppatasi durante l'età napoleonica e che unisce alle tecniche
pugilistiche
classiche anche l'utilizzo di calci, che la rendono per molti versi
simile ai combattimenti thailandesi (in cui però si utilizzano
tecniche più violente) e al kick-boxing, nato negli anni
Settanta.
Anche l'Italia ha
una tradizione di combattimento che, secondo gli esperti, entra a
pieno titolo tra le arti marziali: sono le scuole di combattimento
con bastone e coltello che sopravvivono soltanto in alcuni paesi del
Meridione, tramandate di padre in figlio. La tecnica,
infatti, è legata all'antica tradizione delle società segrete
meridionali e ai loro riti di iniziazione. Una tradizione assai
simile a quella dei Tong, le società segrete cinesi nelle quali,
invece, si è sviluppato il kung-fu. Un capitolo a parli tè
merita un'altra tecnica di combattimento: la capoeira, che
dimostra ancora una volta come ciascuna arte marziale sia legata
alla cultura del Paese in cui si sviluppa.
La capoeira è
praticata in America centrale e meridionale e si è sviluppata tra
gli schiavi di colore che lavoravano nelle piantagioni. Avendo le
mani legate, combattevano per lo più con i piedi e colpivano
l'avversario con un movimento strisciato. Tra le dita gli uomini
tenevano lame di rasoio che a ogni colpo provocavano profonde
lacerazioni. La differenza fondamentale tra la capoeira e le altre
arti marziali sta nella grossa influenza che hanno in riti vudù. Il
combattente, ricerca una sorta di stato mistico, uno stato alterato
di percezione che è l'esatto contrario di quanto insegue l'esperto
di arti marziali classiche, in cui l'allenamento serve per
raggiungere un livello di percezione più acuto.
• La preferita dei Marines
Le arti
marziali orientali restano sempre le più efficaci, e i Corpi
speciali delle forze armate di molti Paesi le utilizzano
nell'addestramento delle truppe. Ai gruppi d'assalto dei Marines o
della Marma Usa vengono insegnati il kali o l'escrima, originarie
delle Filippine: gli uomini vengono addestrati a trasformare
qualsiasi oggetto in arma di difesa e d'attacco. Talvolta, proprio
nei campi di addestramento militari si sviluppano nuove tecniche.
Come il krav maga, uno stile di combattimento a mani nude utilizzato
dalle squadre antiterrorismo in Israele. Sarà questa l'arte marziale
del futuro ?
Francesco Gironi,
tratto da "Focus-
agosto 96"
Che cosa succede
in uno scontro
A CHI ATTACCA
Controllo del panico. Canalizzazione della rabbia. Fluidità dei
corpo e dei movimenti. Sono le caratteristiche principali di un
praticante di arti marziali. «La grossa differenza che esiste tra un
normale atleta e un esperto di arti marziali» spiega Rosa Maria
Muroni, medico psicologo della Filpjk, la federazione italiana che
raggruppa judo e karatè, le uniche arti marziali riconosciute dal
Coni, «è che un karateka, per fare un solo esempio, è ben
consapevole del rallentamento del proprio battito cardiaco,
contrariamente ad altri sportivi per i quali la bradicardia è un
semplice effetto dell'allenamento».
Nelle arti marziali il praticante deve conoscere
infatti perfettamente i limiti del proprio corpo e adattarvi lo
stile di combattimento.
La potenza del judoka. Un praticante di
karatè avrà una muscolatura più fluida per rispondere alla necessità di
portare colpi rapidi all'avversario; viceversa, se il lottatore
pratica lo judo, che prevede sollevamenti, la muscolatura sarà più
potente. Ma il fulcro delle arti marziali è il controllo delle
emozioni. Permette di evitare che l'aggressività si trasformi in
rabbia, cioè in un comportamento istintivo e disordinato, che
impedirebbe all'atleta di battersi con successo.
A CHI SUBISCE
Li chiamano atemi. Sono i colpi al corpo (da Ateru, colpire e Mi,
corpo) infortì durante un combattimento. Lo scopo è neutralizzare
l'avversario: da uno svenimento causato dal dolore fino alla morte.
I punti colpiti dagli atemi sono molti e distribuiti su tutto il
corpo secondo i punti e meridiani utilizzati anche dall'agopuntura.
Il segreto sta non soltanto nella conoscenza dei diversi punti, ma
soprattutto nella capacità del combattente di ridurre al minimo la
superficie sulla quale esercita la pressione. Il campionario è
vasto: botte agli occhi o ai testicoli, colpi portati alla punta del
mento o all'ombelico per provocare lo svenimento. O inferii tra la
quarta e la quinta costola, al plesso solare o alla base delle
scapole per produrre un arresto respiratorio. Lesioni e paralisi.
Raggiungere lo spazio sotto i glutei può invece danneggiare il nervo
sciatico, mentre centrare il coccige provoca lesioni al midollo
spinale e paralisi. Le tempie o lo spazio tra gli occhi e dietro le
orecchie (apofisi mastoide) sono infine punti che, se colpiti,
possono provocare la morte. Un particolare, però, tranquillizza. Non
serve a nulla conoscere i punti deboli se non si hanno le conoscenze
per colpire. E sono pochi a possederle.
|