Viene qui presentata, tratta da
una pubblicazione curata dalla Provincia Regionale di Palermo, una
breve introduzione a quella che potrebbe essere la storia
dell'intero mondo occidentale e orientale messi insieme... proprio
perché Palermo e la Sicilia rappresentano da sempre un connubio di
culture, popoli e civiltà così diverse tra loro ma unite da
un'unica meta: conquistare una città e una regione preziosa e
lasciarne traccia ai posteri ! Questa è Palermo, oggi una città
alla ricerca di una nuova identità... ma ricca di un passato unico
!
Chissà cosa voleva tramandarci Ibn Hawqal
quando raccontò Palermo come il luogo che ospitò il corpo di
Aristotele.
Perché mai questa città era descrivibile al
mondo medievale come sede simbolica di un massimo pensiero
antico occidentale? Ovvero, del più grande alter ego di
Platone? Forse, si tratta di una significante bugia di un
viaggiatore arabo del 972, alla quale potrebbero legarsi
significati inconcepibili, per noi del XXI secolo.
Dire di
Palermo significa raccontare millenni di storia siciliana,
italiana, europea o, ancora meglio mediterranea.
Si potrebbero imbastire storie di Sicani,
Greci, Cartaginesi, Siriani, Romani, Bizantini, Vandali
d'Africa e Persiani, il suo racconto antico, insomma,
manderebbe al diavolo ogni semplice latitudine a senso unico.
Basta già riflettere sui significati contenuti dal suo etimo,
per capire il desiderio delle civiltà antiche che l'hanno
voluta, perché di fatto "tutto porto"
in greco si dice Panormos.
E arrivando dal mare agli occhi dei Punici, otto secoli prima
di Cristo, doveva apparire come una specie di raro e splendido
"fiordo meridionale", a
metà tra Cadice e Gerusalemme, scavato da due fiumi paralleli
nel percorso ma diversi nel carattere; i Punici decisero così
di costruire la loro Ziz
(fiore) assieme ai Sicani.
Kemonia
era il fiume del mal tempo, piccolo e torrentizio legava la
sua esistenza alle stagioni, mentre (con un nome che parla da
solo) Papireto era il
corso d'acqua più grande, forse era navigabile risalendo per
un chilometro l'entroterra fino ai piedi di un capo roccioso,
tutt'ora spazialmente individuabile nei nomi e nell'orografia
della medievale chiesa di Sant'Anna di Porto Salvo nel
quartiere del Capo.
Ma, a meno di scavare, di queste antichità
palermitane punico-romane rimane quasi nulla, eccetto i
reperti del Museo Archeologico
Salinas, la
Necropoli
di C.so Calatafimi, gli
Ipogei
di Casa Professa, e le
Catacombe
di Porta d'Ossuna, spazi parlanti di un'inedita Palermo
cristiana, arcaica del III secolo d.C.
Adesso, dal 1945 Palermo è capitale
amministrativa di una Sicilia che è regione italiana a statuto
speciale: una nostra contemporaneità politica che, nel legare
la città all'Occidente, (tramite l'Europa e Roma) riconferma
gli esiti delle cronache passate tra Normanni, Svevi, Angiomi,
Aragonesi, Spagnoli, Borboni e, appunto, Italiani. Cronache
successive al mondo antico che hanno fatto di Palermo una
grande risultante culturale subordinata ad un centro situato
nel "continente Europa"; una risultante paradossale, perché
nell'essere stata periferia ha avuto "capacità" espressive
proprie nell'elaborare un'autonomia culturale.
Qui si
esaurisce la sintesi della vita dei Palermitani negli ultimi
900 anni, da quando cioè Roberto il Guiscardo sbaragliò nel
1072 l'angolo delle mura islamiche della
Kalsa (adesso inglobato dal manierista
oratorio dei Bianchi),
strappando Palermo dalla civiltà islamica e riportandola
dentro le politiche della Cristianità occidentale.
Questa lotta per un'elaborazione culturale
autoctona, che si è sviluppala nel tempo con alti e bassi, la
si può capire "sentendo" il patrimonio artistico della città:
altissima è stata l'elaborazione culturale durante i Normanni,
debolissima è stata quella sviluppata attorno atto
rivolta dei Vespri, scoppiata
nel 1282: un'ipocrita episodio che nel dichiararsi autonomista
contro l'imperialismo angioino, finì per (come scrisse lo
storico napoletano Benedetto Croce) "segnare la morte della
Sicilia e dell'Italia Meridionale", subordinando
definitivamente l'isola al consumismo nordico europeo.
La Palermo Normanna
ci fa intuire innanzitutto cosa doveva essere la Palermo
islamica esistita tra l'831 e il 1072, della quale non è
rimasto nulla se non il ricordo di una mega metropoli
meridionale con 300.000 abitanti distribuiti in quattro aree
sociali tuttora individuabili.
Il Qasr,
poi chiamato Cassaro,
riuniva nell'antica penisola punica sia il centro direzionale
Aglamita presso l'attuale
Palazzo Reale, che il quartiere
residenziale - commerciale munito di una strada lastricata e di
una immensa moschea Gami nascente da una precedente chiesa
bizantina che dal XII secolo sarà il sito della
Cattedrale.
Attorno al Qasr, aldilà delle sponde dei due
fiumi e riunite alla città in un unico borgo murato (Rabad)
prendevano invece forma la cittadella direzionale della tribù
Fatimita detta Al Halisah, adesso Kalsa; il quartiere papiretano degli schiavoni
detto Harat as Sakalibah, poi Seralcadio (del cui toponimo
oggi non rimangono tracce) e il quartiere nuovo Harat Al
Gadidah, adesso Albergaria,
che conteneva pure la zona ebraica
dell' Harat al Yahud, presso l'odierna piazza
Meschita, da "Masgid", Moschea.
Su questa base urbanistica araba, fino al
1194 i Normanni costruirono la loro Palermo cristianizzata.
Culturalmente fecero continuare il decorso arabo fino
all'esaurimento, rinforzando pian piano i deboli caratteri
latini rispetto anche agli orientali bizantini; un processo
culturale di una civiltà quadrietnica (arabi, greci, latini e
giudaici), unico per intensità in tutto il medioevo europeo,
testimoniato dalla
pietra conservata
alla Zisa, ancora leggibile con diverse misure
nelle fabbriche normanne palermitane.
Il Medioevo maturo portò
a Palermo anche gli insediamenti stabili delle massime nazioni
commerciali dell'occidente; a loro, i governi normanni
offrirono una politica economica fatta di sgravi fiscali e
possibilità insediative, dandogli così opportunità di incidere
sulla crescita urbanistica di Palermo: Genovesi, Amalfitani,
Pisani, Catalani e Veneziani si costruirono interi isolati con
dentro case, chiese e logge, concentrandosi presso il porto
vecchio all'incontro delle due foci, gettarono insomma le basi
dell'attuale Vucciria
completando bonifiche già avviate dai Saraceni, basi culturali
che adesso sono intuibili spazialmente soltanto dentro i
rifacimenti cinquecenteschi di piazza
Garraffello (ex piano della Loggia) e delle chiese
di Sant'Andrea degli Amalfitani,
di San Nicolò lo Gurgo e
di Sant'Eulalia dei Catalani.
Altro ingrediente culturale del medioevo
palermitano è stato, nel primo Duecento, l'arrivo dei tre
ordini mendicanti con i loro complessi conventuali di
Sant'Agostino, di
San Francesco e
del Carmine (quest'ultimo,
essendo forse già esistente nel 1117, rappresenta uno dei
primi insediamenti conventuali carmelitani d'Europa); tre
complessi installati urbanisticamente agli spigoli di una
triangolazione equilatera perfetta, che scelse come baricentro
geometrico il campanile di
Santa
Maria dell'Ammiraglio, il primo luogo del governo
civico cittadino.
Il Medioevo palermitano si esaurisce con lo
"Stupor mundi" dei colti, con il terribile
"Anticristo" dei clericali o più semplicemente per i
francescani spirituali con "il martellatore della Chiesa
Cattolica": Federico II di
Hohenstaufen, uomo irregistrabile presso nessuna
anagrafe a causa di una dinamica indole imperialista, crudele,
immorale e coltissimo, fece di Palermo sede "formale" della
sua corte sveva dal 1198 al 1250; preferì la Sicilia perché ne
intuì la sua originale mediazione tra l'Europa e il
Mediterraneo africano e asiatico; per Dante, il suo operato
culturale siciliano fu fonte della lingua italiana; venne
scomunicato da Roma anche perché, nell'appoggiare crociate
cristiane, non rinunciò mai a scambiare cultura ed economia
con i musulmani d'ogni ceppo. Di contro fece conoscere a
Palermo una decadenza totale mai vista: la sua politica
internazionale lo portò opportunisticamente a concentrarsi
sulla costa ionica della Sicilia da dove passavano i traffici
delle crociate.
Non si può capire l'imponente
clericalizzazione di massa che da lì a poco la Chiesa scatenò
sull'Isola attraverso gli Iberici, se non si riflette su ciò
che i Normanni prima e Federico II dopo fecero della Sicilia:
una regione inafferrabile dall'egemonia cattolico-occidentale.
Dal 1265, gli Angioini fecero di Palermo e
della Sicilia un bacino da cui estorcere ricchezze. Con i
Vespri venne fuori il sicilianismo di stampo latifondista dei
baroni locali, i quali, nell'insidiare Angioini e Chiesa,
accumularono potere creando forti signorie locali che a
Palermo s'installarono con i
palazzi
Chiaramonte e
Sclafani, strategicamente "contro" il
Castellamare e il
Palazzo Reale, sedi del
governo angioino. Nacque, così, la cultura chiaramontana, che,
con orgoglio nazionalista, mitizzò il passato normanno e
combatté artisticamente l'esterofilo gusto gotico-catalano.
Il sentimento chiaramontano permise
complesse elaborazioni plastiche dei blocchi di pietra, di
matrice tessile e orafa come nel portico del Duomo del 1465,
che rimase a Palermo anche dopo la decapitazione dell'ultimo
dei Chiaramonte del 1392, finendo per incubare una certa
passatista arretratezza culturale, leggibile ancora nel
portico quattrocentesco di
S. Maria la Nova.
Ma (scrisse lo
storico Roberto Calandra) "...come in questa isola del
Mediterraneo una luminosa giornata di dicembre unisce insieme
la forza dei colori autunnali e la frizzante aria dell'inverno
alla radiosa allegria primaverile ... " lavorò a Palermo
dopo il 1490 Matteo Carnalivari da Noto.
Con le sue opere, i
palazzi
Abatellis e Ajutamicristo nonché
(probabilmente) la chiesa di
S. Maria
della Catena, fece fruttare il precedente operato
innovativo di due scultori continentali. Infatti, verso il
1470 Francesco Laurana da Zara e Domenico Gagini da Bissone,
con le cappelle del Mastrantonio e degli Speciale, portarono a
Palermo un concetto spaziale nuovo, per molti versi
d'ascendenza toscana, legato al disegno prospettico
brunelleschiano e allo "stiacciato" donatelliano (cioè dare
all'occhio il senso di profondità spaziale tramite
un'incisione prospettica della pietra risolta in pochi
millimetri) il tutto passando dall'uso consueto della rugosa
ed opaca pietra d'Aspra ad un "nuovo" materiale, liscio e
lucente, il marmo rosa.
Queste testimonianze artistiche furono le
risultanti di un consolidamento politico ed economico di una
committenza straniera insediatasi in città fin dal medioevo e
nel 400 aragonese ampliatasi con Lucchesi, Inglesi e
Fiorentini, controllori totali del capitale cittadino in
qualità di massimi commercianti e unici banchieri.
Da questa
fase sociale Palermo ricevette una continuità generazionale di
artisti durata dalla metà del XV alla fine del XVI sec: la famiglia Gagini,
produttiva in tutta la provincia a cominciare da
Domenico, portatore a Palermo
della grande tradizione comasca (il più importante bacino di
scalpellini che l'Europa ebbe per tutto il medioevo) e finire
con i figli e pronipoti: Antonello
approfondì il discorso prospettico del padre amplificandolo in
composizioni sempre più articolate con racconti religiosi
scomposti in scene, dei veri e propri "film di pietra", dei
quali il teatro marmoreo dell'abside
di Santa Cita ne rappresenta una grande sintesi; e
poi Vincenzo,
Fazio e Giandomenico, "Gagini" sempre più "sicilianizzati",
riuscirono anche ad evitare con originalità il modello
classico della composizione architettonica e ne è testimone la
chiesa di
Santa Maria dei Miracoli.
Si tratta di un collage reinterpretativo di motivi
architettonici passati e pluri-etnici (la spazialità centrica
verticale arabo-normanna) che, con rarità, rinnovò la
tradizione: plinto-colonna-pulvino-piedritto e arco pieno
conducono ad un tamburo reggente una "cupola che non c'è",
assorbita da un cubetto con volta stellare. Ma questo di Fazio
Gagini è solo un esempio sintomatico delle chiese fortilizie
palermitane, cioè dell'applicazione all'architettura religiosa
di quella cultura "militare" che dal tardo '400 cambiò Palermo
Di fatto dal 1453, con la caduta di
Costantinopoli in mano turca, la Sicilia vivrà due secoli di
incursioni piratesche continue, talmente devastanti da
incidere sulla conformazione del territorio isolano.
Tant'è che fu proprio nel tardo 400 che le
città costiere ebbero una forte crisi demografica, per cui fu
necessario un sistema di torri a difesa dell'isola lungo il
suo periplo. Si gettarono le basi culturali per una nuova
"politica" del costruire la città, alimentata
dall'imperialismo del viceregno avutosi dal 1513 al 1776, e
che ebbe come massima realizzazione la quadripartizione della
città nel 1600, nonché la definizione della struttura
urbanistica e dell'ambiente sociale a noi pervenutoci. Per
raccoglimento urbano degli eserciti attraversanti il
territorio siciliano, a Palermo vennero rinforzati i limiti
murari e creati gli sbocchi con il territorio extra-moenio.
Così il Ferramolino progettò dal 1535 il rinforzo della cinta
muraria, ancora di fattura normanna, e ad essa sommò 12
baluardi difensivi, dei quali il
basitone dello Spasimo del 1536 rimane a noi come
superstite.
Successivamente, l'antica strada del Cassaro
venne a metà secolo rettificata nella sua informalità
medievale e prolungata sia a monte, con
lo stradone di Mezzomonreale
del 1580 (odierno corso Calatafimi) sbucante dalla
porta Nuova, e sia a mare
congiungendosi tramite la porta
Felice con la costiera strada Colonna realizzata nel 1577, l'attuale Foro
Italico. Nel territorio infine venne lanciato il primo
satellite urbano, il borgo di Santa Lucia, costruito
dal 1569 a servizio del mega porto nuovo a sostituzione del
vecchio porto medievale infra-moenio, che era stato interrato
e partire dal Trecento e ridotto press'a poco all'attuale Cala già in epoca
aragonese.
Insomma, per il controllo imperialista della
città non bastava più fare singola architettura e necessitò
l'urbanistica pesante. E come per tutte le strategie
utilitaristiche che si rispettino, ci fu una filosofia
giustificatrice, una rifondazione concettuale del "simbolo",
portata avanti dal patto sociale scaturito fra aristocrazia
locale, viceregno spagnolo e clero inquisitore. Il
controriformismo seppellì il concetto di simbolo medievale
legato alla sintonia dell'uomo con i tre regni dell'universo;
se, infatti, esso nasceva dai luoghi quello controriformista
fu invece imposto ai luoghi e alla loro gente. E così dal 1600
la costruzione della via Maqueda
suddivide la città in quattro mandamenti, gli affida un centro
di funzione celebrativa pietrificato dai
Quattro Canti: la croce di
strade viene giustificata alle masse come segno evangelico, ma
in concreto era dettata dall'incrocio con il Cassaro.
Il Seicento
si apre quindi con una decadenza contenutistica,
materializzata da artisti capaci, al contempo, sia di
raffinatezza che di grottesca brutalità espressiva. Quest'ambiguità
ebbe una registrazione dal vivo con l'opera di riassemblaggio
dei pezzi di una villa fiorentina che il Camilliani fece per
la Fontana di Piazza Pretoria
nel 1580, antistante al nuovo ingresso del
palazzo del Senato, costruito
per propaganda dagli Aragonesi dando le spalle alla storia
comunale di Palermo, cioè al campanile dell'Ammiraglio. Ed è
sempre tra brutalismo architettonico a corrosione della pietra
che si espresse l'architetto manierista palermitano Mariano Smiriglio (non a
caso di formazione militare) dall'arsenale
Nuovo al palazzo dei
Pellegrini.
Da questo periodo scoccò il culto di
Santa Rosalia: di fatti, da
quando i governi spagnoli decisero di ammassare le classi
povere sul sotterramento dei fiumi Kemona e Papireto, le
condizioni igieniche furono costantemente minacciate da ondate
di peste e malaria, tant'è che già nel 1575 il medico
Ingrassia fu incaricato di fare un "programma urbanistico di
risanamento". Il viceregno preferì risolvere il problema con
le ossa taumaturghe di una discendente di Carlo Magno trovate
su monte Pellegrino, tale Rosalia Sinisbaldi per l'appunto. Da
qui il primo festino della Santuzza
risalente al luglio 1626 e la cancellazione dei due
originari etimi fluviali palermitani.
Contribuirono a determinare l'aspetto quasi
definitivo della città gli insediamenti degli ordini
inquisitori, e più di tutti gesuiti e domenicani. Costruirono
mega episodi architettonici (degli isolati inferi),
ridisegnarono lo sky-line di Palermo inserendo le loro
"insegne pubblicitarie" fatte di pietra e ceramica, ovvero
campanili e cupole, permisero ad un intera generazione di
architetti di progettare con alta intensità; si venne a creare
così la possibilità di superare il manierismo culturale ed
entrare nel cosiddetto "barocco", o meglio nel Seicento
maturo. Una costellazione architettonica si estese su tutta la
città, della quale possono essere consigliate come sintesi: la
chiesa di San Francesco Saverio
di Angelo Italia, il
San Salvatore
di Paolo Amato, le cupole del
Carmine
e dei Gesuiti di A.
Italia, la
chiesa della Pietà
di Giacomo Amato, le decorazioni policrome di
S.Maria Valverde di Andrea
Palma e P. Amato.
E fu da questo rigoglio di cantieri che
Giacomo Serpotta poté inaugurare una nuova generazione di
decoratori, la cui produzione fu inedita per il panorama
artistico non soltanto italiano. Negli
oratori di San Lorenzo,
del Rosario e di
Santa Cita, la decorazione
fa lo spazio architettonico: fu il superamento della lezione
gaginiana; nei suoi "teatrini" plastici, il Serpotta non
addossò mai le figure, mucchi di racconto e vuoti lisci
mozzafiato interagiscono dialetticamente; la lingua pur
rimanendo sempre raffinata si fece anche più popolare negli
accenti, così le espressioni smisero per il momento di essere
elitarie. D'altronde, il decorativismo nel palermitano, sin
dai 400, era portato avanti da decoratori di estrazione
popolare come i Ferrerò ed i Li Volsi.
Con il viceregno spagnolo si consolidò la
gerarchica sociale palermitana: il Viceré, con sede a Palermo,
fu calamita dei baroni latifondisti di tutta la Sicilia,
assumendo così i suoi cortigiani; fu anche in seguito a questo
che una sola residenza non bastò più ed altre dovettero
costruirsene nella limitrofa campagna.
Si svilupparono i
sistemi di villeggiatura lungo le direttrici di
Piana dei Colli e di
Mezzomonreale, che daranno la matrice ai quartieri nostri
contemporanei: Partanna, Tommaso Natale, San Lorenzo,
Resuttana, Pietratagliata, Pagliarelli, Molara e Villagrazia;
matrici di nuclei urbani furono anche le tonnare dell'Arenella,
di Vergine Maria e di Modello nonché i conventi di S.Maria di
Gesù e dell'Uditore.
In città vecchia il
Settecento completò gli insediamenti
controriformisti; Tommaso Maria Napoli e Giovanni Biagio amico
ne furono gli architetti guida, a cominciare dalla costruzione
della nuova
piazza San Domenico,
avviata dal 1724 e completata nel 1726 con la
colonna dell'Immacolata.
Con la fine del viceregno e l'arrivo della
corte borbonica (1777), Palermo poté respirare l'aria
continentale dell'illuminismo borghese, almeno durante il
governo del Caracciolo, portatore di storiche soppressioni: il
tribunale dell'Inquisizione nel 1782, i monasteri e del loro
monopolio di panificazione, la spesa pubblica nelle voci
riguardanti i baccanali con ridimensionamento del festino e
dei cortei aristocratici e paramilitari.
Per la prima volta la società palermitana fu
attaccata nella sua secolare consociazione
aristocratica-militare-clericale, ne derivò una propulsione
scientifica non più vista a Palermo dai tempi arabo-normanni,
della quale ancora oggi ci testimonia l'Orto
Botanico (il più grande d'Europa costruito nel
1789-93) con l'annesso ginnasio
botanico dell'architetto francese Dufourny. Di
quest'epoca illuministica la
villa
Giulia ne rappresenta un'altra testimonianza, fu un
segno nuovo per la riappropriazione sociale di un luogo dove
ormai l'Inquisizione tagliava solo teste.
Di ben altro
significato fu il
Parco della
Favorita, che voluto da Ferdinando IV di Borbone
dal 1799, confermava con un insediamento regale la valenza
aristocratica del territorio posto tra piana dei Colli e
monte Pellegrino, oltre che
creare un luogo di sperimentazioni per il miglioramento delle
tecniche agricole. La sua entrata era costituita dal sistema
della Palazzina Cinese,
costruita da Giuseppe Venanzio Marvuglia. E' anche a lui che
si deve il traghettamento culturale dall'epoca di stampo
controriformista a quella più illuministico-borghese, lo fece
con i revivals cinesi, con l'asciuttezza decorativa delle
partiture di palazzo Riso,
con l'originale soluzione urbanistica dell'oratorio
di san Filippo Neri a piazza dell'Olivella. Ma
Marvuglia fece pure conoscere al duomo palermitano la
cancellazione della sua antica matrice medievale, continuando
(pur frenandolo) l'intervento non organico del Fuga iniziato
nel 1767: un attestato di confusione sui significati cristiani
tramandati nel tempo, che fece addirittura costruire una
cupola pesantemente estranea all'originalità del tempio
normanno.
Processi anticlericali, ricambi di potere,
industria del vino e delle manifatture fecero consolidare una
nuova classe borghese. Essa giostrò per tutto
l'Ottocento gli eventi
urbanistici e culturali palermitani, sia nella buona che nella
cattiva sorte, una classe borghese dalle due anime opposte: da
un lato, un'ispirazione haussmaniana che urbanisticamente
nascondeva la miseria sociale dietro palazzi lussuosi,
sventrando e ghettizzando; e dall'altra, un serio
antiprovincialismo capitanato dai
Florio, connesso artisticamente alle maestranze più
popolari.
Fu così che con l'Ottocento, Palermo, nel
suo espandersi fuori le mura, perse la compenetrazione urbana
tra le classi sociali: a sud la concentrazione abitativa
popolare, e a nord la borghesia, posta ai margini del
prolungamento di via Maqueda, cioè di quella
via Libertà fatta
costruire dal tentativo autonomista del '48 palermitano, un
episodio d'ispirazione mitteleuropea, che fallì il suo operato
nel giro di un anno con l'immediata restaurazione borbonica.
Le uniche tematiche culturali di sviluppo
furono sviluppate dalle sensibilità degli artisti
Giovan Battista Filippo Basile,
Giuseppe Damiani Almeyda e
Francesco Lo Jacono.
Guardando il loro operato artistico, si
capisce come lo spessore culturale dell'arte e il progresso
economico capitalistico non sempre sono direttamente
proporzionali: difatto, il pensiero architettonico della
Palermo paleoindustriale fu più moderno di quello di paesi già
industrializzati come l'Inghilterra. Fu il teatro ad offrire
il tema su cui esprimere questa modernità palermitana.
Con l'arrivo degli italiani dal 1860, il
melodramma nazionale impone modelli spaziali all'altezza della
cerimoniosità; ci vollero allora nuovi episodi che
prescindessero dai teatri già esistenti (i teatri
Santa Cecilia,
Garibaldi e
Umberto I) e che da soli
facessero l'isolato urbano.
Di questa cultura politica
ottocentesca furono figli i teatri
Politeama e
Massimo,
costruiti alla fine dell'800. L'originalità artistica di
Basile e Almeyda fu appunto quella di guardare all'Europa non
come modello a cui adeguare la Sicilia, bensì come "luogo
comune" tra più nazioni, dove comunicare i singoli operati
artistici nutriti dalle diversità uniche dei luoghi.
Importarono criticamente l'atmosfera
tecnologica europea, ma a differenza dei "molti" non caddero
nel tecnologismo ma misero sempre a superiorità la sensibilità
umana, rispetto alle tecniche e a gli stili accademici.
Sempre tra l'800 e il '900, Palermo si aprì
al territorio a macchia d'olio con lottizzazioni puntiformi.
Mondello
fu l'espressione vacanziera della borghesia ottocentesca, un
luogo nato dalla bonifica di una palude (iniziata nel 1865 e
conclusa nel 1910) presso un antico borgo marinaro: su una
piana estesa tra i monti Gallo e
Pellegrino, costituì un polo d'espansione urbana a
settentrione dell'antica città, formato da lottizzazioni a
ville susseguitesi dall'800 ad oggi: per i movimenti di
traffico dalla stazione ferroviaria alla nuova città borghese
fu costruita la via Roma,
un taglio a corpo vivo sul tessuto popolare di Palermo, dai
primi del '900 al 1922.
Sotto il segno della ricerca artistica
autoctona, operò
Ernesto Basile
nel passaggio di secolo, l'unico assimilatore della lezione
del padre, l'approfondì nei suoi significati originali,
costruendo a Palermo opere dialettiche al gusto corrente
epocale, l'Art Nouveau e
il Liberty, considerati
dal Basile come "livellatori di differenze territoriali". Le
tradizioni artigianali popolari del ferro battuto, della
pietra tagliata e del legno curvato confluirono nella
progettazione di spazialità, integrando con il veicolo
espressivo della linea dinamica in tensione l'utensile
all'arredamento e il tutto all'architettura,
Villa Florio e
Villa Igiea di questo
sentimento ne sono l'espressione. Forse il Basile fu l'apice
di una continuità generazionale di artisti siciliani che
(senza sentire il bisogno di importare la cosidetta "Aria del
continente") riuscirono al contrario ad essere maieuti della
loro terra.
Ma carissimo fu il prezzo pagato da Palermo
all'ultima guerra: tutt'ora
il suo centro antico è l'unico in Europa a portare i segni dei
bombardamenti alleati del 1943. La Conca d'Oro diventò col
dopoguerra il bacino di residenza degli emigranti dalla
provincia, una nuova "massa" da impiegare per la gestione
burocratica della Città.
Il "sacco di
Palermo", avvenuto negli anni Sessanta - Settanta,
oltre ad essere stato l'assassino del territorio rappresenta
la constatazione dell'impossibilità d'intervento da parte
delle intelligenze (artistiche e non) sulla costruzione dello
"spazio" a Palermo.
La registrazione di questa contemporaneità
non sta in nessuna opera d'arte palermitana, ma nell'Inchiesta
a Palermo che Danilo Dolci
scrisse nel 1957.
E' qui che la crisi "comunicativa" dei
Palermitani coinvolge in una sola sequenza sventramenti fascisti - bombardamenti - affari politico/mafiosi incentrati
sulla speculazione edilizia.
di Rossella Carlino e Alessandro Di Bennardo
Storiella semiseria
- I Fenici -
Gli Arabi -
I Qanat -
Archeo Palermo
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